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Eolo
recensioni
Francesca Romana Lino ha visto per noi "Nuovo Eden" di Jessica Leonello
AL TEATRO LIBERO DI MILANO CON LA REGIA DI MANUEL RENGA

Giovedì 8 febbraio 2018 “Nuovo Eden” di e con Jessica Leonello per la regia di Manuel Renga ha inagurato un mini focus sulla compagnia Chronos Tre al Teatro Libero di Milano; il 13 sarà la volta di “Maria sotterrata”, in replica fino al 17.
È uno spettacolo composito, questo “Nuovo Eden”. Mescola una pluralità di linguaggi (teatro di figura, docufilm e interazione fra questi) e di suggestioni dichiarate (“Il Cielo sopra Berlino”) e non (impossibile non ritrovarci l'eco di “Cinema Cielo” di Danio Manfredini, anche se i Chronos assicurano di non averlo mai visto); in accordo con una vocazione di teatro dai 9 ai 99 anni, sceglie di mantenere una cifra volutamente in levare, che non per questo rinuncia alla sua portata testimoniale a tratti perfino struggente e poetica.
La trama intreccia tre filoni narrativi, ciascuno dei quali è affidato a uno dei personaggi animati. In ordine di apparizione sono: il ragazzo indiano che fa le pulizie nel centro commerciale, occasione per parlare di come sia cambiato il tessuto sociale negli utimi quindici anni, il protagonista Cesare Frugoni e la struggente e onirica figura di Dolores, puppet a grandezza naturale, animata ora dalla burattinaia, ora da lei ma nei panni di Cesare, in un'incessante sovrapposizione/riduplicazione dei personaggi. Lo spiamo attraverso lo schermo asettico di un reparto di terapia intensiva, il risveglio di Cesare.
Sono passati quindici anni ed ha del miracoloso, come s'intuisce dai commenti fuori campo del personale medico, impegnato ad eludere quella domanda, che si fa sempre più urgente e ossessiva: “Ma lo avete avvisato, mio figlio Matteo?” Inizia così questa Telemachia all'incontrario, in cui, non senza salti logici pur coerenti col carattere quasi favolistico del racconto, dimesso dall'ospedale, Cesare inizia la sua personale ricerca del figlio. Quasi in un viaggio di formazione alla rovescia, il protagonista ripercorre i luoghi abituali, scoprendo quanto siano cambiati. 
Complice l'addetto alle pulizie indiano di seconda generazione che lavora nel moderno grande centro commerciale, nella prima parte ce lo mostrano direttamente le immagini proiettate quanto siano cambiate le cose. Uno spaccato reportistico da archeologia industriale ficca l'occhio in quel primo rudimento di supermarket, con annesso bar e poco più, oramai abbandonato: lo ripercorre quasi fosse una ghost town, non senza lasciarsi suggestionare dalle eco dei ragazzini, che in quei lontani anni '90 andavan lì a dare un (non)luogo alla loro intrepida noia. 
Già, ma cosa ne era, di Cesare, in quello stesso periodo? 
È qui che s'introduce la doppia suggestione di Wenders e Manfredini: l'uno esplicitamente citato in quella retrospettiva in programmazione al Nuovo Eden, un tempo cinema a luci rosse e ora riconvertito all'essai, l'altro in quella ricerca/rievocazione di situazioni promiscue, che un tempo si consumavano in luoghi del genere. Manfredinianiano è il personaggio di Cesare, in quel suo piglio bisbetico e sbrigativo eppure stralunato come immaginiamo possa essere di chi, da sempre abituato a un'esistenza prosaica, avverta poi il bisogno di compensarla nei non-luoghi di una prostituzione dall'affettività umana: e cosa succede, se, risvegliato dal coma a distanza di quindici anni, scopre che di tutto ciò non resta più niente? Manfrediniana è anche Dolores – forse il cuore più poetico e meglio disegnato dell'intera pièce -, che, con la sua figura scomoda quanto a identità sessuale, ne diventa occasione per una narrazione dal linguaggio arguto, sferzante, schietto e piccante quanto basta. Con lei si passa dal riso ad un'amara commozione, complice anche quella modalità di puppet, quanto mai azzeccata nel ristituircene l'ostentazione istrionica, sì, ma anche una dichiarata “falsità”, che enfatizza, invece, tutto il portato di un'autenticità profondamente umana.
Però restano storie un po' a se stanti, le interminabili e metodiche giornate in cui Cesare va alla ricerca del figlio, il cammeo di Dolores e, soprattutto, la riscossa sociale dell'addetto indiano alle pulizie al fine ammesso nella nazionale italiana di cricket: storie che neppure gli artifici tecnici del far saltare i personaggi fuori e dentro dai filmati riesce ad omogeneizzare, facendo, al contrario, risaltare la stridenza fra linguaggi. Forse un po' troppo materiale da gestire in un solo spettacolo; di carne al fuoco ce n'è tanta: non solo l'indagine sulla trasformazione dei luoghi con la sottostante questione se siano i luoghi a cambiare le persone o viceversa, ma temi importanti come identità individuale e memoria comunitaria, dignità sessuale e diritti, italiani di seconda generazione e fors'anche ius soli, terza età e il senso dello stare al mondo. Forse troppo vari, o solamente ancora non perfettamente armonizzati, anche i linguaggi, nonostante una scrittura, quella sì, già efficace e ricca di accenti e sfumature. 
Un ultimo dubbio riguarda la scelta del Teatro di Figura: efficacissimo nel caso del puppet Dolores, non sembra aggiungere nulla più agli altri due personaggi con quelle maschere che, se trasformano i volti di Cesare e del ragazzo indiano, forse non agevolano altrettanto il lavoro su mimica e impostazione vocale. 

FRANCESCA ROMANA LINO 





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