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recensioni
VIAGGIO IN ITALIA
RITORNA SU EOLO VALERIA OTTOLENGHI CON IL SUO VIAGGIO CRITICO ATTRAVERSO I FESTIVAL ESTIVI

Cos’è “contemporaneo”? nell’ambito dei tre giorni del ben più vasto, denso e articolato festival di Bassano del Grappa - giunto gloriosamente ai suoi multidiscipinari trent’anni - dedicati alla discussione/ costituzione di C.Re.S.Co, Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea, movimento certo di grande rilievo, numerosi i firmatari, è tornata più volte questa domanda, quasi che dalla risposta potesse discendere la possibilità di delineare dei confini, un ambito di interessi, lavoro, ricerca, dentro cui appunto potessero vivere e convivere artisti, gruppi, realtà produttive di quest’associazione che chiede di crescere già nel suo acronimo (e questo è certo l’augurio!)

Altro poi inevitabilmente il collante - l’energia per stare insieme, la forza di coesione e progetto - ma è rimasto nell’aria questo quesito, su cui si erano affrontati, anni fa, diversi approfondimenti proprio a Casalmaggiore, anche per la musica, linguaggio in qualche modo più astratto e ardito. Così si scriveva: “Non è sufficiente rispondere: il tempo presente, la sua produzione artistica, il vivere ora. E neppure il contrasto con la tradizione - il passato che perdura per abitudine, affetto, fiducia per esperienze care, rassicuranti, che ancora tengono compagnia - aiuta a definire quel campo altro che si nutre, respira dentro i nostri anni.
E neppure la novità a tutti i costi, la sorpresa originale che vuole segnare la differenza è di per sé evento contemporaneo. Pure si avverte l'esigenza di avvicinare questo quid essenziale, che certo si collega alla ricerca, nella necessità comunque di dialogare con il pubblico anche oltre ciò che è più semplice e immediato: questo è tanto più vero per il teatro che si consuma proprio nel tempo esatto della contemporaneità, qui, oggi, insieme. Allora il problema è sì degli artisti - che però sanno ascoltare esigenze, impulsi diversi - ma forse in misura anche maggiore dei direttori artistici di stagioni, festival, nel produrre e scegliere spettacoli, eventi musicali, attività culturali”.

Già allora dunque ben delineato il prezioso triangolo della contemporaneità, artisti/ pubblico/ direttori artistici, una sintesi perfetta, al di là di ogni definizione, anche per i festival di quest’estate, ottime scelte da parte dei responsabili, sempre più attenti e curiosi, compagnie dalle estetiche estremamente differenziate, poetiche mutanti, tantissimo pubblico ovunque, Torino, Dro, Santarcangelo, Volterra...ma anche per gli spettacoli del territorio nella bella Calabria (Magna Grecia) così come a Granara, località sperduta dell’Appennino parmense...
In tempi di gravissima crisi il teatro si rivela vivace e molteplice, capace di diffondersi per mille vie - mentre crescono gli spettatori ovunque ci sia attenzione ai costi (vere folle, una grande allegria ovunque per Tutti matti per Colorno - e sempre in crescita gli iscritti di Giovani a Teatro con Fondazione Venezia, il biglietto in diversi teatri a prezzo assai ridotto).

E’ stata la prima edizione del Premio del Festival di Resistenza “Teatro e Canzone per la Memoria” a Casa Cervi a scandire, per chi scrive ora questo resoconto, il percorso tra i festival di parte dell’estate: come membro della giuria si è cercato di non mancare ai numerosi appuntamenti distribuiti un po’ a singhiozzo, bellissima la serata conclusiva con la Storica Pastasciutta. la premiazione e l’ottimo Ascanio Celestini a raccontare tra aneddoti ed epiloghi, “C’era una volta un piccolo paese...”. Diversi i riconoscimenti, ma vincitore a pieno titolo - uno spettacolo di grande pregio nella costruzione del testo, nel ritmo d’insieme, nell’interpretazione, importante anche il tema affrontato, il rischio di una catastrofe ecologica che è ancora in qualche modo minaccia - è risultato infine “Sloi Machine” della Compagnia Arditodesio, regia di Michela Marelli, bravissimo in scena Andrea Brunello.
Vero: tante le sovrapposizioni, spesso difficile decidere. Così si sono perduti quasi del tutto gli incontri con gli spettacoli, scelti sempre con particolare cura, per l’eccellente rassegna Il grande fiume, ma anche per L’Emilia e una notte a Rubiera e L’Opera Galleggiante Festival (ma buon ricordo è l’ascolto/ visione di “Rivelazione, sette meditazioni intorno a Giorgione” di Anagoor, tradizionale appuntamento di metà agosto a Commessaggio)
Tre spettacoli di grande valore, con motivazioni e modelli espressivi del tutto differenti, nell’itinerario di un solo giorno al festival fiorentino Fabbrica Europa, sempre ricco di eventi internazionali, di grande fascino la sede centrale, la Stazione Leopolda. Tra gli spettacoli ospiti anche il trittico “Re-(I,II,III)” della Shen Wei Dance Arts, che si era visto a Parma. Danza, musica, teatro, installazioni, mostre: una vasta interdisciplinarietà, coinvolti diversi teatri e spazi della città. “Albero senza ombra”, l’intenso, commovente spettacolo di/con Cèsar Brie, a Firenze in prima assoluta, è stato, per esempio, ospitato all’Istituto Francese, un perimetro di foglie secche intorno al quadrato dell’azione scenica a ricordare il massacro dell’11 settembre 2008 nel Pando, una regione della giungla boliviana, magnifici i passaggi danzati, voglia di pianto, nostalgia e rabbia mescolati insieme. Bravissima Artemis Stravidi, sola in scena per “Another Sleepy Dusty Delta Day”, testo, scenografia e regia di Jan Fabre: in uno spazio con mucchi di carbone e trenini in movimento la danzatrice evoca, anche raccontando e cantando, i passaggi della struggente canzone di Bobbie Gentry “Ode to Billy Joe”, 1967, con il suicidio di quel ragazzo amato, lei al termine nera come forse era Joe... per lui ancora getta fiori dal ponte da cui si era buttato, il Tallahatchie Bridge.
E si spera di rivedere presto “Il ponte di pietra” della Compagnia Kripton, visto infine nella notte al Teatro Studio di Scandicci, regia di Giancarlo Cauteruccio, uno spettacolo che merita ampia attenzione per più motivi, i quattro giovani interpreti, il tema arduo, la fusione di più linguaggi, l’intelligenza d’insieme.

Due spettacoli straordinari, poetiche molto diverse e pure ugualmente essenziali, travolgenti, di assoluta commozione: è stato alla Cavallerizza di Torino, per il Festival delle Colline, tra i più attenti al teatro contemporaneo, che è stato possibile incontrare, in un solo giorno, indimenticabili, il debutto nazionale di “Iovadovia” dei Motus, creazione di Daniela Nicolò e Enrico Casagrande con Silvia Calderoni e Gabriella Rusticali, musica dal vivo di Andrea Comandini, e “La borto” di Scena Verticale, autore, regista e interprete Saverio La Ruina, musiche composte ed eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco, tantissimo pubblico e applausi che non finivano più per entrambi gli spettacoli, una gioia speciale all’incontro con opere di tale energia e tensione artistica, capaci di creare lunghe scie d’emozioni e pensieri.
Un cerchio di immagini sul fondo, registrazione priva di colori di quanto accade dentro la tenda scura a fianco, il luogo buio, chiuso, soffocante dove dovrà morire Antigone. Volontà di Creonte? Oh, sì: lui aveva stabilito la condanna per chi avesse sepolto Polinice, quel fratello che non poteva essere lasciato imputridire al sole. Per questo lei ora doveva consumare il suo ultimo tempo così privo di luce. Gesti affannati, nero spalmato sui capelli, svanito anche il rosso della tuta.
Questa dunque l’unica scelta possibile? O forse tutto avrebbe potuto essere diverso - e Antigone agire politicamente, forse ancora “anarchicamente” uccidendo il tiranno?
Quanto era profondamente suo il desiderio di annullarsi, preferendo finire, chiudere con dolori e lotte, l’esempio dato svanendo invece di combattere apertamente? Ma è difficile lasciare che il nero - presenza fisica reale e intimo orrore - occupi totalmente la persona. E il confronto con Tiresia - con la sua cecità che gli permette di vedere di più e oltre - è anche confronto con la storica creazione del Living, che aveva svelato altre vie possibili al teatro. Magnifico.
E come in “Dissonorata”, che aveva ricevuto premi e riconoscimenti ovunque, anche in “La borto” Saverio La Ruina è seduto su una sedia a parlare in un ruolo femminile. Note di sfondo che sono intime vibrazioni del cuore solo per alcuni passaggi.
E quel parlare quieto - che intreccia ricordi, evoca stati d’animo, alternando strani sogni e realtà quotidiana in un paesino calabro, la solitudine, l’incomprensione, i figli uno dietro l’altro - si carica di una speciale, indefinita, intima drammaticità, sofferenze reali, infezioni e morte per chi nascostamente si trovava nella necessità di compiere quella scelta, rinunciare a nuove nascite.
Tante figure così intorno, ricordando nomi e situazioni, parlando piano, lasciando trapelare situazioni anche buffe, ironiche, di cui ridere, ma che conservano sempre integro, assoluto, tenace il dolore che dalla scena invade tutta la platea. Perfetto.

Ritorno a Torino - gli splendidi dintorni di castelli e verdi colline - per Teatro a Corte. Il Teatro Europeo in scena nelle dimore sabaude, in particolare per “Le Jardin des délices”, ispirato al trittico di Jérôme Bosch, regia e coregrafia di Blanca Li. Magnifici i danzatori per abilità, affiatamento, energia, ritmo, ma anche per l’estrema generosità con cui hanno affrontato una situazione davvero difficile: il temporale, la grandine, avevano reso impraticabile il palcoscenico all’aperto, inutilizzabili le scenografie e le proiezioni video, in uno spettacolo ricco di immagini, di complessità formali, ma il pubblico, folto malgrado il freddo lasciato dal maltempo, ha potuto vedere comunque uno spettacolo di teatro danza di straordinaria bellezza, un fascino speciale, lì sull’erba, poche luci essenziali, ospite nel giardino del castello di Agliè, sullo sfondo l’imponente palazzo dalle eleganti arcate.
Tantissimo pubblico ovunque e sempre, tutto esaurito per gli spettacoli, folla anche per le strade, intorno ai molti eventi off, marionette, mostri meccanici e clown, una Santarcangelo vivacissima, “vecchio stile”, tra bancarelle, piadina e ricerca di sorprese. E sono stati numerosi gli spettatori anche per assistere, allo Stadio, con diretta su Rai3, alla “Finale del Mondo”, un radiodramma con azione calcistica e passaggi teatrali nel tempo esatto della seconda parte della finalissima, una rinuncia piena di allegria in nome del teatro, merito innanzi tutto dei bravissimi ideatori/ attori del Sotterraneo. Ricco di suggestioni ma lasciando forse avvertire il bisogno di una più intensa teatralità da parte degli interpreti tra casualità degli incontri e tensione tragica “Magna Plaza” del gruppo olandese Wunderbaum presentato su più piani al Centro Commerciale Atlante di San Marino, con storie simultanee colme d’amore e di dolore, gli spettatori con cuffie per ascoltare quei dialoghi anche a grande distanza.
Molto bello e funzionale il doppio spazio della Corderia che non si ricorda mai utilizzato prima per il festival: lì si è visto “Pura Coincidència” diretto dallo spagnolo Roger Bernet, con le citazioni da “Insulti al pubblico” di Peter Handke che scorrono su grande schermo, sovraimpresse alle immagini del pubblico ripreso in precedenza mentre aspettava di entrare; e il potente “This is the End My Only Friend the End” di Babilonia Teatri, con un gruppo di dieci attori scelti dagli artisti/ autori/ registi del gruppo che, con ritmo cadenzato, una speciale energia, rivendicano il diritto di vivere la propria morte.
Il solo volto del “Salvator Mundi” di Antonello da Messina occupa la vasta parete di fronte agli spettatori: il suo sguardo quieto pare osservare il pubblico che segue, con crescente struggimento, un vecchio padre accudito da un figlio infinitamente amorevole, ma a tratti anche inevitabilmente spazientito, nella continua necessità di ripulirlo, più e più volte.
Travolgente il sentimento di colpa di entrambi, la mano rassicurante d’affetto del figlio sul corpo pallido del padre, che piange la sua condizione di resa, di dipendenza, di vergogna. Così La Societas Raffaello Sanzio in “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio. Vol. I” di Romeo Castellucci. Terribile e bellissimo, così come sa essere spesso questa compagnia, tra le più importanti oggi in Europa.
Ma tutti densi di poetiche forti gli spettacoli visti a Dro, sette in due giorni, tra i festival più importanti per ricchezza di programma e qualità ideativa, organizzativa, partecipazione di pubblico da diversi anni in Italia.
Di grande commozione “Wunderkammern_Canti”, un percorso d’incontri in alcune case del paese, protagonisti gli stessi abitanti, ideato da Virgilio Sieni, una coreografia di passaggi attenti, di gesti rallentati, memoria e presenza, solo pochissimi spettatori alla volta.
Travolgenti, ironici, stralunati come sempre gli autori/ attori del Teatro Sotterraneo, di cui si è incontrato - rivisto con piacere anche il “Dies Irae” - “L’origine della specie”, gioco darwiniano ricco di colpi di scena, emozionante la determinazione a morire dell’ultimo panda, come Edward G. Robinson in “2022: i sopravvissuti”, qui crudeli le immagini della natura che scorrono sul fondo. Grande d’immagini nella ricerca scenico-figurativa di Anagoor in “Wish me luck”; alcuni passaggi di notevole impatto “I will survive” di Garten, oggetti in movimento; e motivo di dibattito l’intelligente “No Signal” del Teatro Clandestino.

E‘ la Centrale Fies ad ospitare ormai definitivamente questo festival, che ha meritato il Premio Ubu, luogo di creatività e confronto essenziale per il teatro durante tutto l’anno, una crescita straordinaria che ha saputo - preziosa rarità - conservare intatti l’entusiasmo, la freschezza delle origini, “Avere trent’anni” il titolo di questa edizione, un manichino/ scheletro snodabile di Pathosformel come manifesto, pistola alla tempia...

Quando dai meandri del carcere di Volterra - attraversando spazi soffocanti di celle e stretti corridoi, pareti, soffitti, pavimenti tappezzati di carta bianca colma di fitta scrittura, la situazione dello scorso anno con il testo di “Amleto” ovunque tra situazioni e personaggi che evocavano “Alice nel paese delle meraviglie” - quando ci si è trovati, nel cuore dello spettacolo, divenuto “Hamlice. Saggio sulla fine di una civiltà”, all’aperto, nel vasto cortile abbagliante di luce, gli attori/ detenuti della Compagnia della Fortezza in costumi storici e pure fuori dal tempo - di Emanuela Dall’Aglio - immagini di strabiliante bellezza, ancora una volta si è avuta la certezza di un altro, emozionante, assoluto capolavoro. Stupefacente.
Così sempre con Armando Punzo: sua la drammaturgia e la regia, qui anche interprete mentre passa, mutando costume, giocando su infinite ambiguità, tra spazi diversi, i tacchi alti, come a dirigere dolente proprie angosce filtrate da pagine sparse della letteratura, lui e i suoi compagni di viaggio, frammenti alla ricerca di un’essenza evanescente e pure
indispensabile. Commovente il riferimento allo scrivano di Melville, quel Bartleby che, con il suo “preferirei di no”, sembra negarsi definitivamente al mondo. Ma l’artista alla fine continua ad agire malgrado il sentimento d’impotenza, consapevole dell’impenetrabilità della vita. Magnifici alcuni pezzi di teatro nei diversi spazi interni a cui si ritorna, da dialoghi comici in napoletano alle ultime battute di “Zio Vanja”: il teatro si moltiplica mentre gli spettatori possono assaggiarne qua e là solo in parte, di grande efficacia le musiche originali di Andrea Salvatori. Uno spettacolo infinito che, come per i maggiori testi d’ispirazione, “Alice” e “Amleto”, possiede, nella sua assoluta immediatezza, una densità stratificata ricchissima, inesauribili le letture. “Non c’è ancora una forma che lo contenga”, ripete Punzo /attore/ personaggio, affanno e strazio insieme. Ma si ride anche: patetico e grottesco si alternano e s’intrecciano in quel gioco che riempie i giorni e le ore con il sentimento della perdita. “Questo dramma è nulla”.
E alla fine si ritorna ancora alla luce, facendo volare in aria tutti insieme le grandi lettere di polistirolo distribuite anche agli spettatori, “lettere leggere...”. Si perde il senso del discorso, delle parole ordinate: il nulla disperante, indicibile, ovunque. Ma si ride intanto: come un divertimento collettivo, uno scherzo... Davvero: un capolavoro.

Come sempre un incanto d’equilibri di più forme espressive, di tanti temi, passato e presente che si rispecchiano, realismo e caratteri simbolici, comicità e malinconia, ma anche tenerezza e rabbia, tutto nell’assoluta scorrevolezza, un’apparente semplicità densa di strati, questioni economiche e politiche, il lavoro innanzi tutto tra le tante ansie del presente, impossibile pensare al futuro, progettare con fiducia: ancora una volta Monticchiello - un bellissimo paese arroccato in provincia di Siena, magnifico il panorama, a pochi chilometri da Pienza - ha saputo proporre uno spettacolo di grande teatralità, una drammaturgia concreta ed evocativa, molto bravi come sempre i numerosi interpreti, gli stessi abitanti del paese, alcuni con l’esperienza di più decenni, diversi anche i bambini in scena per “Volo precario”.

In due giorni sei spettacoli e la consegna di un premio importante, legato proprio a quel luogo, Radicondoli, il festival di Nico Garrone, a lui dedicati i riconoscimenti consegnati ai critici e ai maestri capaci di aiutare le nuove generazione a crescere, a capire quali direzioni prendere, importante specchio d’indagine, preziosa trasmissione d’esperienza. In questo piccolo paese toscano della provincia senese, splendidi paesaggi intorno, è stato possibile vedere un’altra tappa della ricerca del Teatrino Giullare, che, dopo Beckett e Bernhard, ha affrontato Pinter, “La stanza”, anche qui forte la presenza dell’artificio che separa persona/personaggio, questa volta attraverso la maschera, intensificata la poetica dell’autore tra apparente normalità e crescente sensazione di paura, mistero, minaccia.
Bravissimo Tommaso Taddei di Egum in “Quanto mi piace uccidere”, testo e regia di Virginio Liberti, passaggi di confine tra quieto autocontrollo e pura follia, con sottili spunti ironici.
Proprio da non perdere “Enrico 4”, partitura in musica per voce sola di uno strepitoso Michele Di Mauro affiancato da G.U.P.Alcaro, “moltissimo liberamente tratto dall’Enrico IV di Pirandello”. Ed esilarante, commovente, un magnifico fluire di risate ed emozioni, un racconto che travolge, “Me medesimo” di/ con Alessandro Benvenuti, interni di famiglia e condizioni esistenziali, divertimento e rabbia in stile toscano, un vero incanto.
E molti sono stati gli applausi per Benvenuti anche all’Aperitivo critico, l’appuntamento pomeridiano dedicato al Premio Nico Garrone che aveva ideato e fatto crescere il festival di Radicondoli: Alessandro Benvenuti riconosciuto come uno dei maestri, insieme a Fabio Biondi dell’Arboreto di Mondaino, dove, coniugando natura e cultura, attori, artisti di diversi gruppi, possono lavorare in tranquillità, utilizzando anche l’elegante, raffinato teatro di recente costruzione posto in mezzo al verde, nell’entroterra romagnolo.
Riconoscimenti anche a Claudia Gelmi, Valentina Grazzini e a Marianna Sassano, segnalate per la critica da più compagnie, grande la loro capacità di comprendere il teatro e di scriverne con estrema cura e competenza.
Una Toscana fertile di eventi dunque. Importante che per il Premio Garrone siano gli artisti, le compagnie a segnalare i maestri e i critici che hanno saputo offrire sguardi di confronto, spazi d’ospitalità, generosi insegnamenti, la giuria poi certo responsabile delle scelte... Tradizione di coraggio Monticchiello e Volterra (dove si è apprezzata molto anche l’eccellente creatività di Rodisio, tanti preziosi assaggi d’alta teatralità nella notte). Ma sempre, ovunque e comunque, si è avvertita l’assenza del festival di Castiglioncello, un festival capace di offrire davvero, ogni volta, assaggi di futuro...
Evento straordinario poi a Granara “Cleopatràs” di Giovanni Testori, per la commovente, travolgente, sensuale, disperata interpretazione di Arianna Scommegna e la rigorosa, limpida, colta regia di Gigi Dall’Aglio, bravo il violoncellista, Anthony Montanari, che è anche presenza teatrale. E nell’affascinante la Calabria, per il vasto percorso di Magna Graecia Teatro Festival, tra le pietre degli scavi, in situazioni di piacevole accoglienza, è stato possibile vedere due spettacoli di pregio presso Torre Marrana (Ricadi) e a Monasterace, nella zona dell’Antica Kaulon, rispettivamente “Lo stipo. Canto per una terra dispersa” del Centro R.A.T / Teatro dell’Acquario; e “Terre” di Dracma, Centro Sperimentale d’Arti Sceniche, importante la presenza di compagnie del territorio nell’ambito di un festival nazionale, tra i nomi, a mo’ d’esempio, anche Beppe Barra, Gabriele Lavia e Pippo Delbono.

Ecco, sì, bisognerebbe facilitare lo scambio, il confronto nord/ sud...questo tra i buoni propositi che poi forse troppo facilmente evaporano, si volatilizzano...Del resto il territorio intorno al “Grande Fiume” è davvero fertile di molto teatro, facile far scorrere i giorni raccogliendo spettacoli qui intorno. E un plauso speciale va - a conferma di tanta ricchezza - ad altre tre iniziative emiliane, l’Ermo Colle, direzione artistica di Adriano Engelbrecht, nell’Appennino parmense, il Festival Internazionale dei Burattini, direzione artistica di Remo Melloni, a Parma, e Tutti matti per Colorno, direzione artistica del Teatro Necessario.

Lunghissimi sono stati gli applausi a Tizzano per i due spettacoli vincitori dell’Ermo Colle 2010, una vasta commozione per “Sospiro d’anima. La storia di Rosa” di /con Aida Talliente, musica di David Cej (Premio del Pubblico e dei Ragazzi); una piacevole riscoperta anche di alcuni canti popolari con “Un’alba da qualche parte” di Teatro Viola, con Tiziana Scrocca, Oreste Flouquet, Alessandro Severa, Alessandra Chieli e Nora Tigges, ideazione e regia di Federica Migliotti (Premio della Giuria). Pensieri speciali, di vasta stima e rimpianto, sono andati a Maurizio Soliani, che aveva creato le musiche dello spettacolo di Daniele Albanese, “In a landscape”, limpido, prezioso evento di teatro danza presentato fuori concorso.
br> Nel piacevole, colto, vario Festival dei Burattini a Parma particolare rilievo ha avuto il Sophia Puppet Theatre, tre spettacoli in prima serata nello spazio grande del Teatro al Parco: dopo il magnifico, malinconico e grottesco, “La grande chisciottata”, e il più narrativo e scorrevole “La gabbianella e il gatto”, è stato possibile incontrare “Pinocchio vietato ai bambini”, dall’opera di Collodi. Caratteristica comune di questi lavori - nell’assoluta differenza e originalità nell’uso dei materiali, dei ritmi, dello spazio - è la grande abilità degli animatori/ attori che nei diversi spettacoli scompaiono del tutto o si muovono a vista, oppure ancora, come nel caso del “Pinocchio”, dialogano direttamente con i personaggi, composti dei più vari materiali, fantocci, sagome, mossi in molti modi, uno spettacolo questo dai tanti spunti filosofici, politici, esistenziali. Uno strepitoso successo anche quest’anno il festival di Colorno, con spettacoli molto differenti tra loro ma tutti di speciale qualità, merito di Leonardo Adorni, Jacopo Maria Bianchini e Alessandro Mori, il magnifico trio del Teatro Necessario, una manifestazione di rara perfezione, per la scelta degli eventi, per l’uso degli spazi, per la vastissima partecipazione del pubblico, sempre tra risate ed emozioni, magiche sorprese e fresca allegria tra equilibrismi, giochi di prestigio e musica. Speciale l’incontro con il maestro, di commovente bravura, Avner the Eccentric in “Exceptions to Gravity. Written, directed and performed by Avner Eisenberg”: in una serie di numeri straordinari, coinvolgendo il pubblico, tra piroette, magie e onde di musica klezmer, questo artista ha costruito un vero spettacolo sul tema dell’attesa. Non è un caso che a teatro, oltre a Shakespeare, Avner abbia recitato Beckett, sia nel ruolo di Vladimiro che di Estragone, in “Waiting for Godot”! Qui non deve arrivare qualcuno...ma deve iniziare lo spettacolo! Devono trascorrere quindici minuti - sveglia sul tavolino! - che si moltiplicheranno per cinque per aspettare qualcosa che alla fine si scoprirà già avvenuto, tutto finito: come la vita? Ecco: la contemporaneità è senza tempo, accoglie e trasforma, cerca la profondità così come la superficie, s’impenna, sembra trovare particolari direzioni per poi smarrirsi in diversi rivoli senza radici comuni (forse), ritrova e rielabora dal passato modelli trascorsi con il piacere del rispetto ma anche della trasgressione estrema, si affida a volte solo alla forma inseguendo magari poco dopo, e con affanno, il contenuto, temi e problemi del quotidiano, mescola linguaggi con naturalezza, scavalca con fresca semplicità ogni confine. L’urgenza dell’espressione fusa al talento, la sensibilità estetica intrecciata all’inquietudine, l’ossessione del quid che preme confusamente dentro e cerca modi di dire e dialogare conducono ad esiti segnati dalla differenza, spesso di magico incanto.

E i festival sono luoghi/ tempi perfetti per questi incontri, dove gli spettacoli non hanno norme da rispettare e piccoli assaggi a volte regalano lunghi echi di emozioni e pensieri. Sono cittadini di Dro a sorprendere con i loro gesti raffinati, sospesi, nei “Canti” di Sieni; sono spettatori ad essere attori, resi ciechi sulla scena, in “Enimirc” di Fagarazzi & Zuffellato, incontrati proprio a Bassano del Grappa, spettatori che poi si guardano in video nell’ultima parte dello spettacolo, seduti infine tra il pubblico, nel condividere la visione della loro partecipazione teatrale in maschera; non c’è scelta nel ritrovarsi su grande schermo in “Pura Coincidència” di Roger Bernet, con gli “Insulti al pubblico” da leggere insieme; e sono infine carcerati ed ospiti a lanciare in aria, con comune energia, le lettere leggere di parole vaganti, smarrite, nella scena finale di “Hamlice” a Volterra ... Burattini e palcoscenico tradizionale, teatro danza e di strada, rispecchiamenti tra scena e platea, narrazione e limpide visioni, territori mescolati...e ancora e ancora, voce/ canto e grottesco con rabbia (molto brava Marta Dalla Via in “Veniti Fair”, visto agli Sguardi di Padova)...paure e amare risate...visioni che sfumano nella nebbia (Santasangre) e percorsi individuali lungo fiabe per crescere (“.h.g.” di Trickster Teatro), incontrati in quella Bassano della contemporaneità che è forse anche puro vivere senza certezze, ogni cosa mutevole, dentro, grande, insaziabile, il bisogno di nutrimento artistico, impossibile stare solo in questa realtà di cui pare sfuggire continuamente il senso...Una meraviglia allora le ampie onde di pubblico ovunque per questo teatro che dice di noi, che, consapevoli del vuoto impossibile da colmare, avvertiamo giungere a tratti, dolce compagnia, il piacere consolatorio della bellezza in scena.
Valeria Ottolenghi
( per gentile concessione) da “Il Grande Fiume” n° 46