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recensioni
TRALLALLERO 2015/LE RECENSIONI DI GIULIO BELLOTTO
IL FESTIVAL TENUTOSI AD ARTEGNA IN FRIULI DAL 4 ALL'8 OTTOBRE

Tra il 4 e l'8 ottobre si è svolto ad Artegna (UD) la quinta edizione del "festival di teatro ragazzi in Friuli Venezia Giulia", Trallallero. La manifestazione, organizzata da Teatro al Quadrato, è stata luogo d'incontro per numerose realtà attive sul territorio nazionale, compagnie ed artisti che hanno avuto modo di confrontarsi tramite i linguaggi del teatro nella rilassata ed accogliente dimensione del festival, sottotitolato "Il valore delle piccole cose". La direzione artistica del festival motiva così questa scelta: "Non poteva essere altrimenti: una piccola compagnia come la nostra di rivolge ai piccoli da una piccola città. Siamo piccoli, ma senza timore di dichiararlo, perché è importante imparare a guardare le cose anche da prospettive diverse".
Andiamo quindi a parlare degli spettacoli, visti nel bel teatro Mons. Lavaroni di Artegna.

All'interno di un festival ospite e nativo di una terra come il Friuli, tanto orgogliosa delle proprie tradizioni da riscoprire e riformare il locale dialetto oggi assurto alla nuova dignità di lingua autonoma, una menzione d'onore è senza dubbio ben meritata da "Contis tarondis" della compagnia Lenghis dal Drâc. Lo spettacolo, che tradotto suona come "Racconti rotondi", ha la particolarità di presentare tre simpatici personaggi, fiere pantegane, che si esprimono esclusivamente in friulano. Per lo spettatore è come ascoltare un incomprensibile gramelot, ma ciò nulla toglie alla godibilità dello spettacolo, esilarante tanto per i bambini che ne apprezzano le sfumature mimiche e gestuali condotte attraverso il sapiente uso degli oggetti, quanto per gli adulti che ne colgono il lato metaforico e scanzonato. Non a caso, questa produzione si fregia già della vittoria conseguita quest'anno a "Piccoli palchi" che ha premiato la sua unicità di spettacolo per bambini in lingua friulana. Ma non è questa l'unica ragione del suo successo.
La regia di Serena Di Blasio da una nuova prospettiva a fiabe della tradizione popolare più classica: titoli come “La Lune e la Suriute”, “Cinisute” (Cenerentola) e “Il Sunadôr di Pifar” (Il pifferaio magico) vengono restituiti alla fantasia dei bambini senza inutili rielaborazioni, reinterpretati però in chiave topesca - una variazione sul tema che non appesantisce  ma affascina, lo si è già visto negli ultimi anni con le altrettanto riuscite produzioni di Teatro Invito che ne condividono il taglio narrativo. 
Per il buon esito dell'operazione è fondamentale la bravura e l'affiatamento degli interpreti Leo Virgili, Michele Polo e Federico Scridel, capaci di affiancare al coinvolgente racconto anche un ottimo accompagnamento musicale dal vivo, puntuale e presente eppure discreto, a metà tra la colonna sonora e il rumore di scena.
È una scommessa pienamente vinta, dunque, quella di Lenghis dal Drac, artisti capaci di muoversi con disinvoltura tra la ripetizione e il rinnovamento della tradizione consolidata del teatro di narrazione rivolto ai ragazzi.

Un secondo spettacolo che non è certo passato inosservato, tanto per la perfezione tecnica quanto per il riuscito adattamento drammaturgico, è stato il "Libro delle Ombre" di Teatro di Carta. Si tratta di una storia ricavata dal curiosissimo romanzo di fantasie gotiche "Storia straordinaria di Peter Schlemihl" di Adalbert von Chamisso, che immagina le avventure di un uomo che perde la propria ombra. Questo nucleo narrativo rielaborato da Chiara Carlorosi e Marco Vergari, artisti di teatro d'ombra, si è trasformato in una favola immaginifica in cui il protagonista è un aspirante scrittore che vende il suo sogno ad un mago in cambio della ricchezza, ma infine riesce a recuperare la gioia grazie ad un aiutante magico. Nel pieno rispetto delle funzioni di Propp, quindi, abbiamo uno spettacolo meraviglioso - cioè capace di creare meraviglia, grazie sopratutto a giochi di luce tanto precisi da sembrare frutto di computer grafica. La cura dei dettagli è minuziosa e degna di prodotti dal budget mastodontico. Molti aspetti dello spettacolo ricordano infatti classici dell'animazione per l'infanzia, a partire dalla creazione di un ritmo fin da subito incalzante: l'inizio in medias res rimanda direttamente all'intro affidata alla voce fuori campo del lungometraggio Disney "Le follie dell'imperatore". La scenografia a libro, interamente costruita a mano e su misura dello spettacolo, richiama un espediente ampiamente usato dagli studios (due esempi per tutti, Cenerentola e Shrek); il servitore magico Lumen cita raffinatamente l'Edi di Archimede Pitagorico e al contempo instaura un divertente gioco di assonanze con il nome di Lampe, servo di Kant.
L'intero impianto, scenografie e drammaturgia, contribuisce a rafforzare quell'impressione di inquietudine già presente nel soggetto originale. Aggiungendovi i costumi, accuratamente studiati anch'essi, il risultato è un'atmosfera ottocentesca che ben poco ha da invidiare alle pellicole di Tim Burton. Anzi, esattamente come in quei racconti, il protagonista de "Il libro delle ombre" si muove all'interno di un orizzonte magico e incomprensibile che non è minimamente in grado di controllare ma dal quale esce in qualche modo fortunosamente vincitore, suscitando però sonore risate con la sua inconsapevole goffaggine; tripudio di questa sottile comicità è la lotta finale che lo scrittore ingaggia col mago malvagio, giocata su una grande attenzione al movimento, quasi una danza.
Il finale, più patetico, è invece affidato alla rianimazione del servo/lampada Lumen, spento per vendetta dal mago sconfitto, ed è momento di sincera commozione, nota sulla quale cala il sipario.
E come lo spettacolo finisce ecco salire la consapevolezza che lavori del genere sono perle rare, prodotti incantati di una dimensione ancora artigianale del teatro, spettacoli fatti in piccolo eppure davvero grandi.

Al di là delle singole eccellenze viste a Trallallero e degli entusiasmi che possono suscitare, già dal primo spettacolo presentato al festival si capiva che il livello delle compagnie presenti sarebbe stato decisamente buono. Sto parlando di "Il teatro magico", produzione triestina di Teatro Nomade; la necessità che sta dietro alla creazione di questa pièce di teatro fisico e mimo è ben chiara ed emerge con forza dal tessuto scenico: far avvicinare i più piccoli alla musica classica. Sono infatti le arie più note che accompagnano l'attore Ivo Huez nella sua evoluzione da buratto ad attore. Un percorso complicato, acrobatico, vissuto attraverso un corpo in continuo mutamento e movimento; eppure allo stesso tempo un tragitto così semplice da sembrare del tutto naturale, come se l'interprete si trasformasse in ogni istante sotto i gli occhi divertiti del piccolo pubblico, sempre attentissimo. 
Che Huez si sia messo completamente a disposizione dello spettacolo e della sua impronta registica, che ha voluto la musica quasi sempre presente durante tutta la durata di 50 minuti, è lampante. Di contro la tecnica attorale si fa strada con altrettanta risolutezza attraverso la capacità di manipolare i molti oggetti presenti in scena per creare paesaggi, personaggi e immaginari: da una scopa un destriero, da un mocio una principessa, da un secchio un castello. Ci sono tutti, gli ingredienti per raccontare la più bella delle fiabe eppure non c'è niente, a ben vedere: solo un attore e il suo pubblico. 

Un altro one man show, condotto dallo scoppiettante Tiziano Manzini, è l'ormai collaudato "Cecco l'orsacchiotto", ispirato al libro per l'infanzia “Storie di orsacchiotto” di Else H. Minarik. Si tratta, sulla carta e in scena, di una vera e propria epopea del peluche, amico fidato e instancabile compagno di giochi. Anche in questo caso l'attore si mette completamente al servizio dello spettacolo e vi si immerge; quasi torna bambino e conduce un gioco serissimo, come d'altronde sono tutti i giochi dei bambini, con un orso diventato vero per l'occasione. In un inedito e freschissimo modo di relazionarsi con l'oggetto/feticcio della fantasia, Manzini tramuta il suo compare orsacchiotto in oggetto del mistero, in pupazzo da ventriloquo, in vera e propria spalla della propria esuberanza solo in parte compensata da quell'impassibile immobilità inanimata.
Il meccanismo è antico ma mai esaurito, come dimostra l'entusiasmo dei bambini per lo spettacolo offerto loro: si tratta del vecchio e caro fool, il giullare, che riemerge dalle foschie in cui un pubblico fin troppo adulto l'aveva relegato. Torna con la sua capacità intatta nel mettere in dubbio il senso della convenzione, finanche di quella teatrale: l'attore è reattivo ad ogni stimolo esterno, lo raccoglie e da ciascuno ne fa un lazzo, una battuta e uno scherzo.
I cardini di questo gioco teatralizzato, che potrebbe senza alcuna forzatura andare avanti per ore, sono l'utilizzo della voce e della lingua, e la comicità scatenata dal contrasto tra le dimensioni dell'attore e del suo giocattolo/compagno di scena, l'orsacchiotto. Il primo elemento viene portato avanti attraverso una buona tecnica attorale che permette senza sforzo di intonare canzonette, strillare, far versi e in sovrappiù inventare neologismi e cambiare repentinamente tono di voce; il secondo si esplica nell'uso di oggetti di scena simmetrici ma differenti per formato, grande e piccolo, cappello e cappellino, tazza e tazzina, etc.
La scenografia di per sé, poi, è ridotta all'essenzialità di uno scaffale che permette di presentare via via un campionario di oggetti disparati il cui senso è determinato dal contesto e che, da soli o in blocco, significano ben poco. L'unico oggetto importante è l'orsacchiotto; eppure quando il sipario si alza, l'orsacchiotto sparisce e compare Cecco, il personaggio.

Dormire è un po' morire, o almeno far morire la giornata che è ieri per far posto a quella che sta per diventare oggi. Per questo i più piccoli, si sa, non vogliono mai andare a letto. Proprio a loro si rivolge "Bleons", lo spettacolo di Teatro al Quadrato dedicato alle lenzuola.
Bleon [-òn] sm. tiessût che al ven metût tal jet, linçul. IT: lenzuola; questo significa il titolo. In scena ci sono infatti solo delle lenzuola. Delimitano uno spazio intimo, raccolto, che si staglia contro il palco vuoto; vi entrano due attori, dopo aver appoggiato cappotti e cappello all'appendiabiti. Studiano il rettangolo di tessuto, lo attraversano, vi si fermano e iniziano a muovervisi, dentro e intorno. 
Dice un proverbio friulano: "Sot dal bleon, une sole opinion". I due però, pur senza emettere fiato, non sembrano molto concordi, sopratutto su quando bisogna andare a dormire, e così mentre lui si prepara accuratamente il letto lei pensa a tutt'altro, e si diverte un mondo. Così inizia la prima spassosa sezione dello spettacolo, in cui si susseguono una lunga serie di gag da cartoon in cui lui da prova di concretezza e senso pratico e lei di un entusiasmo e una goffaggine che l'accomunano al fortunato personaggio di Paperino. L'estro degli attori, e i loro rispettivi physique du role, si adattano perfettamente alla dinamicità di questi giochi di coppia basati sul gesto ripetuto e reiterato fino alla soluzione; entrambi i letti vengono finale mente preparati, tutto è pronto e ancora lo scherzo continua sulle luci. Acceso stento acceso spento acceso. Spento. Si dorme.
Inizia quindi la seconda sezione dello spettacolo, nettamente distinta dalla prima: addormentati, ecco che si sogna. Iniziano a crearsi i più diversi ambienti: come in una sinfonia, dopo aver osservato un panorama notturno segue un viaggio in barca, una visita dal barbiere, un pasto da re. Il ritmo si fa sempre più serrato finché il sonno diventa profondo e impenetrabile. Solo fino al risveglio, naturalmente, affrontato con lo stesso brio della prima sezione, conferendo così alla struttura una danneggi circolare. 
Lo spettacolo agisce su una leva tanto emozionale quanto formale, delineando un quadro raffinato e semplice. La scenografia quasi inesistente si fonde con gli oggetti di scena, fondali da utilizzare in mille modi, lenzuola le cui caratteristiche principali sono versatilità e malleabilità. Sono, in sintesi, il tramite attraverso cui una regia efficace ci traghetta con la grazia di Mary Poppins dal teatro al sogno e ritorno.
Dopo "Felicino",di cui Eolo ha già ampiamente parlato in occasione del Premio Scenario Infanzia e "Maggio all'Infanzia", abbiamo visto"Gnam"  
Come spesso accade per i disegni più belli, quelli che le mamme orgogliose appendono al frigorifero, tutto nasce da poche linee ben definite. È questo il caso di "Gnam!", di Ullallà Teatro, che si apre con la scelta di un bambino tra il pubblico, a cui viene chiesto di disegnare sulla lavagna una casa, un fiore e un albero. Da questi elementi prende forma una complessa metafora tra la cucina della nonna e l'educazione di due fratelli, che ricordano con affetto e commozione i tempi dell'infanzia portandoli in scena tra acrobatica, narrazione e danza. Una commistione di linguaggi capace di alternare comico e poetico e di portare avanti il parallelismo instaurato tra gli ingredienti delle torte della nonna e le personalità dei due fratelli. "Voglio essere una torta dolce e affettuosa", e così inizia una lunga preparazione fatta di mescolare cuocere assaggiare e aggiungere quel che serve all'impasto. La lavagna diventa una tavola su cui il cibo pian piano prende forma man mano che lo spettacolo procede. 
Gli interpreti, Angela Graziani con il bravo e snodato Pippo Gentile, agiscono stagliandosi davanti ad un telo luminoso che dovrebbe simboleggiare gli stati d'animo suggeriti dai ricordi evocati nei vari momenti della pièce, ma che in realtà resta ben poco impresso nella memoria. A far funzionare la scena è senza dubbio l'entusiasmo degli attori coinvolti a fondo nella rappresentazione, che di per sé sconta il limite di essere divisa in quadri poco collegati tra loro. L'elemento drammaturgico dominante, l'unica costante dello spettacolo oltre al tema del cibo, è infatti la figura di questa nonna benigna, quasi da Looney Toons; il resto dell'incanto è affidato alla musica e al movimento, che non sempre sostengono efficacemente la tensione drammatica. Tuttavia lo spettacolo prosegue e si conclude senza esaurirsi troppo presto, dopo aver saputo proporre una serie di immagini e sensazioni che, quelle sì, verranno ricordate a lungo da grandi e piccini.

Dopo la buona prova offerta con "Bleons", i padroni di casa di Teatro al Quadrato tornano sul palco con "La bella e il bestiolino", un altro spettacolo pervaso in qualche modo da quell'incanto aggraziato che già si aveva avuto modo di osservare tra le lenzuola della precedente scenografia.
Maria Giulia Campioli, regista (e ora anche attrice in sostituzione di Gaia Davolio), e Claudio Mariotti affrontano il tema dell'autostima e delle insicurezze, mettendo in scena l'incontro di una coppia di personaggi diametralmente opposti. Dal foglio di sala: "Lui è brutto, ha scelto di non aprirsi per non essere ferito. Lei è bella, sorride al mondo e il mondo le sorride. Lui l'ammira ma si nasconde sempre. Poi un giorno i due sguardi si incrociano e tutto cambia". Cambiano anche gli attributi dei personaggi, che attraverso il divertente utilizzo dei costumi affrontano quello che lo spettacolo ci presenta come un percorso di crescita: per lui verso l'accettazione di sé, per lei verso la comprensione dell'altro. 
Chiudersi in sé stessi non è mai la soluzione; questa è la morale dello spettacolo, comprensibile e godibile dal pubblico di tutte le età. La narrazione procede infatti attraverso la descrizione di una situazione, sviluppata grazie ad una scenografia ridotta al minimo indispensabile e sfruttata a fondo in tutte le sue potenzialità espressive; manca invece il livello più evocativo che impreziosisce "Bleons", altro spettacolo di coppia di Teatro al Quadrato. Non che ciò non vada a discapito della finzione drammatica, che sceglie consapevolmente un taglio cinematografico e denotativo, riuscendo appieno nell'intento che si prefigge: raccontare una storia e trarne un insegnamento, proprio come le fiabe più belle.

"I tre porcellini" è una delle fiabe europee più note: di origine incerta, la sua prima stesura in forma scritta risale al 1843 ad opera di James Orchard Halliwell-Phillipps che la incluse nelle sue Nursery Tales, riprendendo un racconto della tradizione orale di molto antecedente.
Quel che è certo, invece, è che teatralmente questo soggetto è uno dei più amati; anche il teatro ragazzi ha le sue mode e le rielaborazioni di fiabe classiche stanno riscuotendo grande successo in questo periodo. L'operazione compiuta dalla Piccionaia di Vicenza si inserisce in questa corrente con il suo "Rosa, Rosetta e Rosmarino", uno spettacolo scritto e curato da Ketti Grunchi con un cast di giovani attori, Aurora Candelli, Nicole Cecchinato e Giovanni Gottardo.
L'originalità della riscrittura sta nel presentare al posto dei tradizionali porcellini tre fratelli in cerca di un tetto, di un focolare accogliente e di un pezzo di pane. I protagonisti sono costantemente accompagnati dal soffio (del lupo, del vento, della tempesta e della pioggia), suggestione e stimolo alla paura tanto quanto alla fantasia, un rumore ben presente sulla scena che si ancora a momenti di svolta nel viaggio dei tre; dal canto loro gli attori sono sempre in movimento e in rinnovamento, strutturando un racconto basato sul corpo, la gestualità e il suono che li accompagna. 
La parola si riduce così all'essenziale, diventa filastrocca e gioco nonsense, accompagnamento quasi musicale ad una scenografia dal simbolismo spesso poco chiaro, che prevede un'imponente macchina scenica forse non del tutto necessaria. Si rischia di perdersi tra i mille e più oggetti utilizzati e caricati di significati diversi e poco armonizzati tra loro, in un affastellamento che diventa quindi un preciso linguaggio poetico. Superato lo scoglio dell'iniziale spaesamento è presa familiarità con le regole del gioco, si inizia ad apprezzare l'andamento serrato della pièce, la sua capacità di rinnovare gli stilemi del racconto e di sorprendere.
Ricorda una Babele onirica e fiabesca questa visione dei Tre porcellini. Una fiaba, quindi un genere primordiale, luogo di metamorfosi e trasformazione, riconducibile a generi antichissimi e ad una forma ancestrale che fa capolino dalle pieghe della narrazione, invitando a prendervi parte e ad abbandonarvisi. 

"Gli Snicci Stellati sulle pance hanno stelle. Gli Snicci Comuni hanno solo la pelle. Non sono stelle grandi, ma piccine abbastanza da farti pensare che non hanno importanza. Ma, per queste stelle, gli Snicci Stellati giravano in spiaggia a becchi levati fiutando e sbuffando: "Noi siamo GLI SNICCI, quegli altri, i Comuni, son solo posticci!" E se li incontravano, nella passeggiata, andavano oltre senza neanche un'occhiata"
Questo brano della traduzione che Anna Sarfatti fece per l'edizione italiana di The Sneetches and other stories, libro illustrato per l'infanzia pubblicato nel 1961 dal Dr. Seuss, è la migliore introduzione per lo spettacolo di Carichi sospesi presentato per la prima volta nella sua forma completa a Trallallero. "Gli Snicci" si assume infatti la responsabilità di teatralizzare un opera davvero non facile con cui confrontarsi; la poetica e l'intento politico dello scrittore per bambini più amato d'America non sono infatti facili da ricreare o rendere su un palco. Si rischia che quel che risalta così chiaramente sulla carta stampata si risolva in un maldestro tentativo quando portato a nuova vita da un attore. Renzo Pagliaroto e Marco Tizianel, interpreti dello spettacolo, non cadono in questa trappola, dimostrando una buona tecnica e ottime capacità attorali. Tuttavia lo spettacolo non si può definire riuscito, pur avendone tutte le potenzialità: in parte la responsabilità è di alcuni errori tecnici che a una prima si possono perdonare. Non aiutano neppure le scenografie e i costumi, opera complessa se non mastodontica di Gina Malaterra, che pure ispirandosi iconograficamente ai bei disegni del Dr. Seuss dimentica che la finzione teatrale necessita di essere pratica e praticabile. Un carrozzone di scene, enormi teste di cartapesta, macchine con tubi di luce  colorata da allacciare a prese elettriche in proscenio, tutte queste non sono cose che possano essere gestite da due soli attori, per giunta già gravati da abiti e maschere che li fanno assomigliare a Snici, gigantesche e goffe papere.
Marco Caldiron, regista, fa del suo meglio per ovviare a questi inconvenienti ma l'impressione è che il testo necessiti ancora di qualche aggiustamento per raggiungere la sua forma compiuta: un maggiore equilibrio tra le parti e un ritmo più sostenuto permetterebbero di sostenere la sfida con l'originale stampato. 
In ogni caso, il punto di partenza sul quale lavorare è chiaro e molto promettente. Forse anche un artista eclettico e difficile come Dr. Seuss può trovare la sua resa teatrale, e senza dubbio Carichi sospesi vanno nelle direzione giusta.

Un altro sempreverde del teatro ragazzi è la trattazione di problemi di carattere sociale. In tali occasioni, una buona massima che la compagnia ArtiVarti dovrebbe tener presente è evitare la pretesa di rispondere a ogni questione in maniera assoluta e certa, preoccupandosi piuttosto di porre le domande giuste. In questo modo, uno spettacolo eviterà di risultare sentenzioso e creerà un vero dialogo col suo pubblico, lasciando magari spunti di riflessione che potranno essere approfonditi successivamente a scuola o in famiglia.
"Bulli di sapone" è un testo collage di vari autori, strutturato in quadri. La scenografia è composta da vari banchi, che vengono utilizzati per alcuni di questi; il resto della scena rimane vuoti e inutilizzato dal momento che gli attori, Martina Boldarin e Max Bazzana, si limitano ad occupare il proscenio, gestendo entrate e uscite in funzione dell'elenco di brani di cui è composto lo spettacolo. Il foglio di sala cita Cuore ma nello spettacolo si riconosce Stefano Benni in un curioso spaccato molto intergenerazionale che ha la pretesa di analizzare la figura del bullo. Da quale punto di vista, sociologico, storico, antropologico o psicologico, non è ben chiaro. Il risultato è decisamente caotico, né l'interpretazione aiuta a fare ordine tra gli ami che vengono lanciati dal palco. Così le lenze si attorcigliano e nessuno abbocca, anche se i "bolle di sapone times" che punteggiano lo spettacolo sono scenografici. Ma non basta.

Durante il festival, il coinvolgimento dei bambini è stato un elemento molto importante sia per le matinee in teatro sia per gli spettacoli appositamente pensati per un pubblico scolastico ed eseguiti nell'auditorium delle elementari o nella sala consiliare di Artegna. 
Due spettacoli che in particolare hanno avuto un rapporto molto stretto col loro piccolo pubblico sono stati "Cavoli e merende" di Teatro della Sete/Associazione 0432 e "Domitilla, s.o.s. operazione terra" di La luna al guinzaglio. 
Il primo, nato dall'incontro tra attori e narratori per l'infanzia, racconta infatti la storia di due sorelle che, affamate e non trovando altro in cucina, si trovano un po' per gioco un po' per necessità a mangiare le odiate e temute verdurine, offrendone anche a tutti i bambini in platea.
"Domitilla" invece si propone di sensibilizzare al rispetto del pianeta attraverso il giocoso viaggio di Teresa, una bambina coraggiosa incaricata dall'aquila Domitilla di trovare gli ingredienti per salvare il mondo dall'inquinamento dell'acqua, della terra e dell'aria. La recitazione, talvolta fin troppo stillata a favore di vocine e morti infantili che in realtà ben poco affascinano e catturano il pubblico più giovane, viene sostenuta dall'ottima prova attorale di Michele Polo, già interprete di "Contis tarondis". Un secondo limite è invece costituito dalla scenografia, composta da cubi di legno dipinti a mo' di fondali componibili, per cui vale lo stesso limite di praticità di cui ha sofferto la rappresentazione de "Gli Snicci".

Per finire, sono da segnalare le iniziative collaterali al festival, tra cui:
 L'inaugurazione di Trallallero 2015, che dal prossimo anno vedrà la frequenza della rassegna di spettacoli passare da annuale a biennale per lasciare maggior spazio a seminari sulla formazione di artisti e operatori, condotti sempre nei medesimi luoghi che hanno sempre ospitato il festival. A seguito dell'inaugurazione si è svolto un incontro con l’autrice Emanuela Da Ros.
Un workshop formativo per artisti dal titolo “Play the Mobiles: in ricerca dell’equilibrio fra i linguaggi”, a cura di ERT-teatroescuola. Il conduttore del percorso è stato Giuliano Scarpinato, vincitore del Premio Scenario Infanzia 2014 con lo spettacolo “Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro".
L'incontro dedicato ad Assitej Italia, sezione nazionale dell'associazione internazionale del Teatro ragazzi, e al progetto formativo In-forma, un laboratorio di formazione per professionalità del teatro dell'infanzia previsto per la stagione 2015/2016. A questa riunione è seguita anche la conferenza di ERT-teatroescuola “Ma tu che fai?”, un tavolo di lavoro aperto ad artisti e operatori per una riflessione a tutto tondo su arte e infanzia partendo dal tema della multidisciplinarietà.

Giulio Bellotto