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recensioni
FESTIVAL DI VIMERCATE
ECCO I CONTRIBUTI CRITICI

RECENSIONI 1

Quella di Vimercate , più che una rassegna di Teatro-ragazzi nel senso tradizionale del termine, è qualcosa che assomiglia a una festa popolare, a un incontro allegro, a uno scambio paritario. E per la sua collocazione temporale - ai primi di giugno, a vetrine regionali ultimate - è un po’ anche una panoramica sintetica delle produzioni più interessanti dell’anno in corso. E va dato atto agli organizzatori - la Cooperativa Tangram a cui Mario Bianchi ha fornito suggerimenti supplementari - di aver saputo coinvolgere il territorio in un interesse per il teatro che ha quasi dello stupefacente. Spazi sempre pieni di famigliole che hanno prenotato l’abbonamento a tutti gli spettacoli, affollate attività di animazione e laboratori creativi nelle piazze e nei parchi, teatro di strada in grado di interrompere il traffico. Un’attenzione del genere non si ottiene all’improvviso, è frutto di un’opera di sensibilizzazione che viene da lontano - e che dimostra come sia possibile da parte di una (piccola!) compagnia che opera con intelligenza nel territorio coinvolgerlo a tutti i livelli. Bravi Tangram, anzi bravissimi.
E veniamo agli spettacoli. Cartellone affollatissimo, secondo il solito, e livello complessivamente alto e molto variegato, con numerose Prime Nazionali . Si è visto l’ultimo spettacolo della Compagnia T.P.O (produzione Metastasio di Prato) ,”C.C.C., Il Giardino italiano” (regia di Francesco Gandi e Davide Venturini) , che completa la trilogia composta dal giardino giapponese e dal giardino dipinto. Questo è davvero il gran finale, in cui l’ interazione ludica con gli spettatori e la traccia narrativa presenti nelle opere precedenti si attenuano per lasciare il posto a una teatralizzazione più compiuta. E’ un’autentica felicità visiva, una sorta di incantamento che avvolge lo spettatore (anche adulto) in un’atmosfera magica: davanti ai suoi occhi si svolgono immagini di assoluta armonia. Dalle siepi di bosso, dalle statue, dalle nitide geometrie rinascimentali nascono ombre di ninfe, voli di putti e spiritelli, creature di una mitologia arborea e misteriosa. Uno spettacolo che lascia la voglia di essere rivisto.
Molto intrigante, anch’esso imbevuto di succhi mitici, Tic Tac e il tempo sospeso del Teatro Pan di Lugano . In scena, nell’incrocio dei rami di un alto albero sta, in un grande nido, la Signora del Tempo. E subito lascia intravedere la chiave dell’azione scenica, che attinge al simbolo e alla metafora. Questa Signora del tempo è duplice, volto di ragazza e maschera di vecchio decrepito, come duplice è la sua funzione: sorgente di vita e dispensiera di morte, governatrice del flusso del tempo, in cui si contemperano gioie ed affanni.
Ai suoi piedi due personaggi, Tic e Tac appunto, che hanno dei clowns l’espressività corporea e il gusto del gioco. Ma attraverso il loro gramelot, passa anche un altro significato.Rappresentano infatti due modi di vivere il tempo, l’uno in chiave utilitaristica e metodica, l’altro in forma poetica e spensierata. Per via di associazioni, sono anche razionalità e intuizione, rigore e leggerezza. Entrambi capaci di interagire tra loro nei momenti difficili. E soprattutto testimoni attoniti dell’eterno ciclo della generazione: dal seme rugoso donato dalla Signora del Tempo, nascerà alla fine un fiore avvolto dalla luce. Spettacolo complesso, che ha il coraggio di proporre all’infanzia un tema difficile come quello del tempo: e lo fa con leggerezza, parlando attraverso le immagini, affidandosi a una sintassi che suscita risonanze interiori. Quanto colgono i bambini? Quanto percepiscono del significato profondo sotto la prima superficie della comicità clownesca? Credo che molte suggestioni possano essere percepite anche a bassi livelli d’età. E che un tout public potrebbe essere il destinatario ideale di questa imagerie poetica e coinvolgente.
A un tout public si rivolge anche Ghirigori per il lupo nero di Trickster Teatro , gruppo emergente della Svizzera italiana (testo e regia di Cristina Galbiati). Lo spettacolo ha come sottotitolo “Vagabondaggio teatrale nel giardino segreto di cappuccetto rosso: ma la classica fiaba è qui solo un’eco remota, richiamata dall’imposizione a ogni spettatore di un rosso cappuccio.
In realtà ciò che allo spettatore viene proposto è molto di più: un percorso sensoriale attraverso le proprie paure, inscritte nel disegno labirintico di uno spazio scenico a pianta centrale. Sentieri, boschi, angoli ciechi, stanze segrete: segni appena percettibili nella luce bianca di un grande cubo contenitore, simboli lievi che richiamano rarefatte atmosfere borgesiane. Lo spazio diviene esso stesso figura narrante. Chi è il lupo e chi è cappuccetto? I ruoli si scambiano e si sovrappongono. Si affaccia anche l’immagine della paura suprema, quella della morte. Con le proprie paure si impara a convivere: le si può portare con sé come un fagottino sulle spalle, secondo la bellissima immagine finale. Un eccesso di intellettualismo? Forse. La volontà di approfondire il tema in tutti i suoi aspetti porta talvolta a un raffreddamento dell’emozione nella parola. Ma Ghirigori per il lupo nero resta una prova di grande interesse in una direzione di ricerca che appare assai stimolante.
Il tema del cibo attraversa due spettacoli diversi, Racconti di contorno di Città Murata e teatro Invito con Stefano Bresciani e Luca Radaelli che firma anche la regia) e L’omino del pane e l’omino della mela di “Quelli di Grock”, di e con Alessandro LaRocca e Andrea Ruberti (si potrebbe aggiungere anche Patate, una parola senza denti sulla guerra, produzione per gli over 15 ,della Compagnia dei Dionisi, su testo di Renata Ciaravino.
Nel primo spettacolo,un autentico ristorante accoglie una settantina di bambini serviti a tavola da un inappuntabile maggiordomo. Menù di fantasia che si concluse con una gustosissima “zuppa di sasso” (leggi:minestra di verdura) divorata con gusto anche dagli spettatori di solito riottosi a questo genere di piatto. Il clima è rilassato, attraversato da riflessi di fiaba con qualche brivido horror: dal retrocucina provengono infatti i barriti di un vecchio Orco con abitudini cannibaliche e lo stesso cuoco, suo figlio, brandisce a tratti un minaccioso coltellaccio. Dunque, siamo dentro un topos dell’immaginario infantile, il cibo, in cui i significati attivo e passivo (mangiare e essere mangiati) sono correlati fra loro e - a livello di immaginario, appunto -interscambiabili.
Tra i fitti riferimenti al fiabesco, trova posto anche un monologo “serio” dedicato al rapporto tra il cibo e la sua privazione, tra consumismo e povertà. Ma su tutto trionfa un senso di gioioso divertimento: per una volta, il teatro “nutre” non solo metaforicamente…
Il secondo spettacolo, invece, è una specie di viaggio fantasioso all’interno del cibo: due cuochi vogliono preparare un pranzo per gli spettatori bambini ma, avendo a disposizione soltanto una pagnotta e una mela, imbastiscono intorno a questi due ingredienti tutta una serie di invenzioni e di gustosissime gags.
Più brillante nella prima parte, dove trionfa il gusto del movimento e della clownerie tipico della Compagnia, lo spettacolo ha tuttavia un buon ritmo complessivo e tiene sempre desta l’attenzione dello spettatore.
Attenzione invece alle trappole del buonismo! Là dove trova modo - anche con le migliori intenzioni- di insinuarsi in uno spettacolo, lo candida a un flop irrimediabile. E’ il caso di Nessunoqualcuno di Coltelleria Einstein (regia di Giorgio Boccassi, che è anche interprete insieme a Donata Boggio Sola). Mi aveva colpito, nelle altre produzioni della Compagnia, una cifra estrosa e originale, affidata all’ironia e alla freschezza. Qualità che si ritrovano nei primi dieci minuti di questa nuova produzione: dopo di che l’azione scenica va a infilarsi in una storia bislacca, condita di buoni sentimenti e di esempi edificanti che risultano - ahimé! - piuttosto retorici.
Va un po’ peggio con La bambola e il burattino del Teatro Libero di Palermo ( regia di Lia Chiappara, con Giuseppe Colaianni e Giuseppe Sciascia), in cui il buonismo scorre a fiumi. Questa storia , che parrebbe scritta mezzo secolo fa, talmente risulta lontana dal mondo dell’infanzia contemporanea, racconta delle peripezie di due giocattoli “buoni” ( una bambola e un soldatino) che vanno in giro per il mondo in cerca di bambini poveri a cui donarsi: attraversando in questo viaggio stereotipi e banalità che sarebbe stato saggio evitare.
Ci si consola passando agli spettacoli di narrazione: tra cui un delicatissimo 'Clara va al mare ' prodotto dalla Cooperativa Tangram con la regia di Giorgio Scaramuzzino. Clara è una ragazzina down ,una “pura di cuore” che ha un grande desiderio:andare al mare. Lo spettacolo racconta della giornata gloriosa, in cui lei affronta il viaggio da sola, supera le diffidenze e le ipocrisie di vari adulti , cammina “sempre diritto” per arrivare finalmente alla sua meta.
E’ uno dei più bei racconti di Guido Quarzo, al quale Lilia Marcucci regala un’ interpretazione vibrante e misurata, senza sdolcinature e senza retorica: tanto che risultano perfino superflue le immagini fotografiche che accompagnano la sua narrazione.
Una menzione merita anche l’altra produzione di Tangram Teatro, ' Tum ' , con la regia di Giorgio Boccassi e l’interpretazione di Mirko Rizzi. Fuori dalla sala parto, un giovane padre attende nervosamente la nascita del suo primo figlio e racconta le sue emozioni, le sue aspettative, la sua paura. Si intrecciano ricordi d’infanzia e progetti per il futuro, speranze e timori, tenerezza e lieve comicità. Malgrado una recitazione ancora un poco acerba, lo spettacolo raggiunge lo spettatore e lo coinvolge con grazia.
MAFRA GAGLIARDI


RECENSIONI 2

Notevoli anche se per motivi diversi i due spettacoli presentati dai padroni di casa della Cooperativa Tangram, accomunati dal fatto di avere sul palco per la prima volta da soli , Lillia Marcucci in “Clara va al mare” e “Mirko Rizzi in “Tum” .
Lillia Marcucci racconta la piccola grande odissea di Clara , la protagonista, del libro di Guido Quarzo, una bambina down, che da sola fugge da casa per andare al mare. In modo molto naturale l’attrice accompagna la piccola protagonista e noi, prima in stazione, poi sul treno e dopo ancora per le strade di Savona, sino alla spiaggia a contatto con le onde, raccontando i piccoli e grandi incontri che Clara fa durante il suo minuscolo viaggio epocale. Le donne e gli uomini , i bambini che assistono all’avventura di Clara si manifestano pienamente sul palco e diventano protagonisti di un percorso di iniziazione alla vita ,affettuoso, mai moralista o retorico. La narrazione è accompagnata da immagini e dalla voce di una possibile protagonista in carne ed ossa che in qualche modo vegliano sullo spettacolo senza mai fagocitarlo. Giorgio Scaramuzzino, intelligente ed accorto regista, guida Lillia Marcucci in questa felice prova di attrice.
Mirko Rizzi invece interpreta un padre nella sala di attesa ,mentre aspetta l’arrivo del suo primo figlio.L’attesa è punteggiata da ricordi, da speranze, persino da possibili metologie educative che si materializzano sul palco attraverso il rapporto con gli oggetti e con una intelligente colonna sonora composta da rumori(tum è appunto il rumore del battito del cuore del padre in spasmodica attesa)) L’interesse evidente dell’autore per il piano musicale a volte sbilancia lo spettacolo, ma il tema del tutto nuovo del ruolo del padre è costruito sul palco con rara delicatezza (mista ancora a qualche impaccio espressivo), che l’ironia autorale del regista Giorgio Bocassi pienamente asseconda.
Per molti versi perfettamente riuscito anche l’incontro tra il regista Michelangelo Campanale e la compagnia tarantina Crest che in “Fiabe e giganti” si manifesta in uno spettacolo di grande qualità che ancora una volta, forse dati i tempi che corriamo, ci parla di paura, della assoluta necessità di affrontare le difficoltà che ci vengono incontro ,se vogliamo pienamente maturare.E lo fa attraverso il racconto e l’analisi di tre storie che un custode narratore svela agli spettatori. Annamaria De Giorgio, Salvatore Maeci, Damiano Nirchio , Maristella Tanzi ,aiutati scenograficamente da un armadio tuttofare e da un apparato musicale fortemente espressivo , conferiscono alle tre storie ,seppure con qualche snodo drammaturgico poco risolto, un fascino del tutto particolare nutrito da una costruzione registica molto personale che mescola sapientemente tutti gli elementi della scena.
Grande emozione a mezzanotte per lo spettacolo della compagnia Dionisi “Patate, una parola senza denti sulla guerra” di Renata Ciaravino con la regia di Valeria Talenti. complice anche lo spazio non teatrale dove è stato allestito e complice soprattutto la grande immedesimazione che tre giovani bravissime attrici Matilde Facheris, Silvia Gallerano e Carmen Pellegrinelli donano a tre anziane che attraverso la loro memoria raccontano le vicende vissute durante la guerra. Sono vicende quotidiane fatte di gesti che le stesse donne compiono ancora ogni giorno ma che si caricano di effetti e di affetti lontani che la parola teatrale sottolineata dalla musica in scena restituisce terribilmente presenti. Le paure della guerra, gli amori svaniti si stemperano in un rapporto colloquiale nutrito di melanconia ma anche di frequenti sorrisi fino all’improvviso ,quanto umanissimo finale, che segna finalmente quella condivisione del dolore che sta alla base di ogni riconciliazione. Successo vivissimo del pubblico che ha seguito lo spettacolo per le tre attrici che con la loro recitazione ci rimandano al grande teatro capocomicale di una volta ahimè tanto bistrattato ma altrettanto ahimè perduto.
La giovane compagnia “Il Baule volante” in “La bella e la bestia” diretta ancora una volta da Roberto Anglisani raggiunge la sua piena maturità in uno spettacolo che porta il teatro di narrazione ben al di là delle sue possibilità utilizzando registri recitativi diversi in un crescendo di emotività veramente notevole. Liliana Letterese e Andrea Lugli partono infatti dalla pura narrazione, ancorchè modulata su un doppio binario, che usando la gestualità spesso si interseca in modo da ridonare pienamente i significati che la parola esprime per arrivare, attraverso l’uso di pochi oggetti di scena ad un teatro essenzialmente realistico, a tratti epico, a tratti ironico che incontra sempre l’attenzione e l’emozione dei piccoli spettatori. Nei mutevoli registri espressivi dei due interpreti, essi entrano direttamente nei sentimenti di empatia per i due personaggi protagonisti della storia, tanto diversi tra di loro ma tanto simili nel rifiuto di una realtà stupida e opprimente che non accetta più la dolcezza e la diversità , faccie uguali di una stessa medaglia.
Come si è detto la regia è di Roberto Anglisani che alla bella presentazione della mostra fotografica di Alessandro Sala dedicata ai narratori ci ha regalato con la sua consueta semplicità uno spicchio di grande poesia raccontandoci di un piccolo topolino che aveva il solo dono della parola che incanta.
MARIO BIANCHI


RECENSIONI 3

DANIELE MILANI
Storia del gigante Giovanni

Quando Daniele Milani entra in scena ne la “Storia del gigante Giovanni” i bambini rimangono a bocca aperta. Non c’è null’altro che lui in scena (e così sarà per tutti i 50 minuti circa). Ma è abbastanza. Vestito da pilota d’aereo-meccanico con un tocco di ali da angelo (i costumi sono di Bartolomeo Giusti), l’attore cattura subito l’attenzione del pubblico anche grazie a una “calata” fatta da suoni strani e strafalcioni onomatopeici che lo rende evidentemente simpatico. Così, spiega di essere un gigante. Ma un gigante buono. E anche se non ne ha le fattezze (lui dice “sono un bonsai di gigante”), i bambini lo stanno ad ascoltare, seguendolo in quella lingua molto inventata che fa sembrare il Gigante Giovanni un personaggio di Jonathan Safran Foe tanto parla strano.
E invece lo spettacolo in prima nazionale, presentato dalla compagnia aquilana “A bocca Aperta” è liberamente tratto da un testo per bambini (il “Ggg” di Dahl Roald, scrittore ormai amato dai più piccoli anche grazie all’ultima riduzione cinematografica de “La fabbrica del Cioccolato”). La trama è tutta incentrata sulle buffe usanze di un gigante “ruba sogni” che conosce una bambina immaginaria con la quale salva, a suo modo, il mondo una volta che questo viene assaltato dai giganti cattivi. La storia continua, quindi, sulla scena di un party organizzato dalla regina d’Inghilterra che compare inaspettatamente a metà del racconto. Spunti divertenti e molto accattivanti accompagnano la rappresentazione.
Lo spettacolo è consigliato a un pubblico dai 6 anni in su. Buona scelta perché l’affabulazione tende a essere, comunque, un po’ complicata e forse anche un po’ lunga per i bimbi più piccoli ai quali sarebbe piaciuto vedere qualche oggetto in più durante il racconto. Ma Daniele Milani, a cui si deve anche il testo e la regia, non delude. Cambia voce, cambia toni senza fallo. E poi, rispetta sufficientemente ruoli e proporzioni mimiche. Così riesce a strappare anche molte risate dal pubblico adulto anche grazie ad alcuni riferimenti diretti a parti del corpo un pò “tabù”, trattati qui con estrema delicatezza e ironia.
MARIA CRISTINA CERESA


RECENSIONI 4

FONTEMAGGIORE I tre porcellini

Grande energia e dinamismo ne”I tre porcellini” di Fontemaggiore teatro che vede in scena tre attori nei panni dei tre porcellini e del lupo, in una versione che tramite la regia di Maurizio Bercini, immette molta ironia nell’impianto tradizionale della celebre fiaba .
Lo spettacolo comunque procede dritto e con carattere forte, nella scelta della versione più secca e dura della fiaba, nella caratterizzazione decisa dei tre porcellini, anche nei momenti di stampo comico della premessa e del finalissimo utilizzando una scenografia piena e di grande impatto… e tiene il suo pubblico senza mai 'perdere ' nessuno, salvo magari cedere sul finale e perdere la “ rotta” asciutta e convincente intrapresa all’inizio. In una stanza dai grandi 'sipari ' patchwork, si svegliano tra le raccomandazioni della mamma i tre attori col loro naso da porcello. E' arrivato il momento di andare per il mondo a cercar fortuna… Il primo, Saggio è diligente e puntiglioso, un po' saccente, poco paziente e molto sicuro di se. Il terzo, altrettanto sicuro di se, è l'opposto, irridente, libero, amante dello svago e della vita. Il Medio invece è l'indeciso, precario di fronte alla scelta tra il modello costrittivo 'guardati sempre le spalle, prevedi e provvedi ' e 'si fa così ' del fratello Saggio, e quello più fiducioso e spensierato del fratello Terzo che si gode la vita. Medio è il porcellino che tiene uniti, finché gli riesce, i fratelli, saldo solo nella sicurezza affettiva. Tolti i lenzuoli, appare una collina praticabile di verdissimo prato sintetico all'inglese cosparso di fiorellini, alle cui spalle si scopre uno schermo di cielo azzurro e poche nuvolette…
Una scenografia che gioca sul surreale, sull'incoerenza dimensionale tra l'ambiente e i personaggi, tra i modellini delle case e il lupo, in carne, ossa e maschera dell'attore, e gli animali di plastica , alter ego formato mignon dei protagonisti. La vicenda si svolge asciutta, spedita e impietosa: si separano i fratelli, e prima Terzo, poi Medio, costruiscono la loro fragile casa, spazzata via dal soffio da compressore del lupo, e poi nella sua pancia davanti a un cielo diventato purpureo.
La coerenza dello spettacolo ci pare meno precisa a partire dalla calata del lupo nel camino della casetta di mattoni di Saggio: la scenografia si ribalta e perde l'originalità colorata e surreale che aveva, per trasformarsi in una più banale e descrittiva cucina campagnola … il lupo in pentola tiene un monologo di commiserazione della propria natura - che l'ha portato a mangiare i porcellini e a morire da lupo -, e di compianto per il destino del porcellino Saggio - che avrà sempre davanti a lui un lupo da cui difendersi -, destinato a rimanere solo con la sua supponenza, anche lui schiavo della sua natura… Un discorso che sembra voler giustificare (giustificazione superflua) le vicende e la scelta di questa versione della fiaba.
A questo punto l'attore lupo esce dal pentolone… 'ma qui è un camposanto, tutto pieno di morti! '… e chiuso il sipario invita i bambini a far tabula rasa della storia con un bel disegno di Shrek.

QUELLI DI GROCK L'Omino del pane e l'Omino della mela

Pane, mela e fantasia per lo spettacolo presentato da Quelli di Grock: un allegro gioco teatrale, tra il mimo e la clownerie, che riempie la scena di sorpresa e di sorrisi, e lascia nelle orecchie una musica da fischiettare. E l'inizio dello spettacolo è veramente folgorante con una serie di gags dal sapore circense che ci riportano alla grande tradizione di questa importante forma teatrale che Alessandro Larocca e Andrea Ruberti conducono con ritmo e grande precisione. Senza la pretesa di affrontare tematiche forti o impegnative, la parte narrativa - pur rimanendo la parte “debole” dello spettacolo - ha momenti poetici nella buffa storia dell’Omino del pane e dell’Omino della mela, che si inserisce a sorpresa nel quadro delle gags dei due cuochi-clown Ravi e Olo senza cercare (nè trovare) un particolare filo drammaturgico che leghi il tutto. Nella storia di incontro e di amicizia dell'Omino del pane e l’Omino della mela, vicini di 'casa ' costretti, ma gelosi, in un mondo monogusto l'uno di pane e l'altro di mela, fanno capolino sentimenti come la gelosia e la curiosità, e desideri importanti - di compagnia, di amicizia, di gioco e di scoperta per sfociare, sempre con poche parole, in un viaggio fantasioso, tutto giocato sull’immaginazione fisica, che col mimo riporta i due omini a concludere lo spettacolo come l'avevano iniziato nell'allegria generale di tutti i bambini con tanto di canzone cantata insieme al pubblico.

COMPAGNIA 'ANFITEATRO ' Tom Sawyer

Interessante e piacevole lo spettacolo Tom Sawyer... finalmente una storia al maschile! La regia di Pino di Bello che già aveva messo in scena un'esemplare riduzione de 'La guerra dei bottoni ', semplice e pulita, ritaglia un percorso lineare che attraversa le avventure di Tom, alternando narrazione e dialogo in una serie di quadri essenziali, riproponendo fedelmente alcuni passi del grande classico di Mark Twain, per altro non molto frequentato a scuola, giovandosi pienamente del ritratto a tutto tondo che il romanzo ha saputo tracciare, nello svolgersi delle vicende, del cuore di un ragazzino, nel gioco, nelle relazioni, nei desideri e nelle fantasticherie... nella confusa e appassionata avventura di essere. Lo spettacolo, per la sua scelta di un taglio più intimista che rocambolesco, manca ancora un po’ di ritmo per stuzzicare e tenere l’attenzione del pubblico sino alla fine… ma le premesse ci sono tutte! Bravi gli attori(Giampietro Liga e Davide Marranchelli) e simpatiche la premessa e la conclusione, che si guardano bene dal trarre un qualche tipo di morale, sicuramente superflua, cercando piuttosto di accompagnare i bambini con un salto dentro e poi fuori dalla storia.

COMPAGNIA 'I DIONISI ' Patate

Patate, una parola senza denti sulla guerra

Ci lascia pienamente convinti il lavoro presentato dalla compagnia Dionisi: un bel testo, una regia senza cadute, una splendida interpretazione delle tre attrici e una grande partecipazione emotiva, condivisa col pubblico in un’ora di bellissimo teatro accompagnata da un’armonica a bocca.
Tre donne anziane, tre amiche, si ritrovano un pomeriggio per preparare il loro intervento ad una conferenza a cui sono state invitate per raccontare il loro vissuto durante la guerra. Lo spettacolo si apre con una telefonata: “no, non c’è bisogno che tu venga” dice una di loro alla nipote... Questo vissuto è raccontato a noi tutti senza la pretesa di raccontare chissà che, la “verità”... I ricordi si richiamano con naturalezza come momenti della vita, con leggerezza e intensità, liberi da qualsiasi intento documentaristico e tinte drammatiche di circostanza. La guerra rimane come lontana, stemperata dal trascorso del tempo, non del tempo storico, ma del tempo vissuto di queste tre donne: la guerra è lontana una vita, fa parte della loro vita, è stata lo sfondo di un susseguirsi di giorni e di gesti quotidiani dai quali riemergono, in un delicato e commovente equilibrio tra nostalgia e dolore, ironia e commozione, i ricordi di quelle cose che nella loro esperienza e nella loro intimità le hanno lasciato un segno.
La scena si tiene saldamente ancorata al presente delle tre donne, alla loro età - regalandoci una situazione dolcemente comica e una gustosa preparazione del puré - e le ritrae con sensibilità nel carattere e nelle debolezze, nelle ferite e nei sorrisi dell’anima. I ricordi di guerra prendono forme diverse e trasfigurate nel tempo, alcuni fino all’aneddoto, altri come confidenze di segrete ferite mai cicatrizzate. Ricordi femminili, di genere, di un genere femminile che si allontana nel tempo. Ricordi di lavoro, di umiliazione e di corteggiamenti, di difficoltà e di canzonette, fino ai più dolorosi e nascosti ricordi di morte.
Lo spettacolo non è l’alternativa alla pagina di un libro di storia, né ai ricordi dei nonni di ciascuno. E’ un ripercorrere il tempo, un pezzetto della Storia del nostro Paese, nelle vite delle persone, un invito forse, a non lasciar insabbiare il passato e la Storia nell’astrazione dall'esperienza vissuta, perché le vite abbracciano il tempo, e lo attraversano: quelle dei nonni, dei genitori… anche le nostre: 'la maggior parte era gente come noi, che non sapeva cosa fare '.

SYLVIE VIGORELLI