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Eolo
recensioni
Le recensioni di SEGNALI
A CURA DI MARIO BIANCHI ED ELENA SCOLARI CON GIULIO BELLOTTO E NELLA CALIFANO

Dal 6 all'8 Maggio 2015 si è tenuta la XXVI edizione di SEGNALI, storico Festival di teatro ragazzi, che rappresenta uno degli appuntamenti più importanti di questo settore,momento d'incontro e di confronto tra le diverse realtà produttive e distributive a livello nazionale, che nelle ultime edizioni è stato realizzato e sostenuto esclusivamente dalle due strutture organizzatrici, il Teatro del Buratto e Elsinor Teatro, con le proprie forze e con la generosa collaborazione delle Compagnie selezionate e invitate (che hanno aderito investendo il proprio impegno gratuitamente), quando, è bene ricordarlo sempre, era stato uno dei fiori all'occhiello della Regione Lombardia, che ha preferito, in modo secondo noi poco oculato, trasferire il suo sostegno in altri ambiti.

Questa edizione si è aperta il giorno 6 con un incontro a più voci, dei cui esiti relazioneranno in un contributo a parte Giordano San Giovanni e Gianluca Balestra, realizzato per indagare tutte le possibili strategie e scenari futuri del teatro ragazzi italiano in un territorio mutato, anche alla luce delle prospettive derivanti dal nuovo decreto applicativo del FUS.

Il Festival ha coinvolto tre sale teatrali :Teatro Verdi, Sala Fontana, a Milano e la fabbrica del gioco e delle arti a Cormano( struttura che potrete ammirare in tutti i suoi ambiti nella sezione dei video) in un cartellone di 13 spettacoli che ha attraversato tutti i linguaggi espressivi del teatro, proposte da compagnie non solo lombarde.

Anche in questa edizione si è tenuta Giovedì 7 alla Sala Fontana la cerimonia degli EOLO AWARDS - dedicati a Manuela Fralleone - organizzati dalla nostra rivista e consegnati con la collaborazione di testimonial del mondo del teatro e della cultura per l'infanzia, i cui risultati potrete vedere nella sezione dedicata al premio nel nostro sito.

La consegna dei premi è stata seguita dalla presentazione del testo teatrale DreierstehtKopf (il tre và sopra) - nominato per il premio Deutscher Kindertheaterpreis 2014,

Edizione di ottimo livello questa del festival milanese, diretto da Stefano Braschi e Renata Coluccini, con diversi spettacoli interessanti, la cui disamina dei più incisivi come sempre di Mario Bianchi ed Elena Scolari, verrà accompagnata quest'anno dallo sguardo di due giovani bravi nuovi collaboratori Giulio Bellotto e Nella Califano per arricchire di voci e sguardi diversi la nostra introspezione sugli spettacoli.


O.Z STORIA DI UN 'EMIGRAZIONE/ECO DI FONDO

Già il primo spettacolo ha riscontrato il nostro vivo interesse, essendo in campo per la sua realizzazione la giovanissima compagnia “Eco di fondo” con una particolarissima versione del “Mago di Oz”, la celeberrima storia creata da Baum, riproposta magnificamente dal famoso film di Fleming e praticata tante volte anche dal teatro ragazzi italiano.La compagnia ha dimostrato di essere negli ultimi tempi una delle nuove formazioni che in modo acuto ed innovativo ha cercato di attraversare la storia non solo del teatro dedicato all'infanzia con l'ottimo esito di “Nato Ieri” ma misurandosi anche in altre direzioni, sottoponendosi alla regia di uno dei maestri del teatro contemporaneo Cesar Brie in “Orfeo ed Euridice”, di cui vi abbiamo proposto una adeguata recensione.

A Segnali ” Eco di fondo” hanno proposto, come detto, un'interessantissima versione del capolavoro letterario di Baum, accompagnata dal significativo sottotitolo “Storia di un’emigrazione” con la regia di Giacomo Ferraù, che ne ha curato anche la drammaturgia, insieme a Giulia Viana con in scena Andrea Pinna, Libero Stelluti, Valentina Scuderi e la stessa Giulia Viana.Al centro dello spettacolo vi è, come nell'immaginario dello scrittore americano, la piccola Doroty, proposta non come una bambina che vive nel Kansas più arretrato, ma come una ricca e viziata ragazzina che, a causa di un uragano che ha coinvolto la nave da crociera su cui viaggia, si ritrova, naufraga, in una realtà mai vista prima. Comincia per lei un lungo cammino incantato attraversato terre devastate dalla guerra e dalla povertà che la modificheranno enormemente. Durante il percorso, Dorothy incontra persone che in modo inventivo e contemporaneo rimandano ai famosi personaggi Baum ( una ragazza che vuole conquistare il proprio diritto allo studio (lo spaventapasseri che desidera un cervello); un burbero ragazzo che desidera conquistare la libertà di amare chi vuole (il taglialegna in cerca di un cuore); ed un disertore che tutti immaginano gloriosamente morto in battaglia (il leone codardo). Tutti sono in viaggio verso O.Z, paese pieno di speranze ma che in realtà deluderà molto le loro aspettativa, parafrasando in modo immaginifico le speranze di migliaia di migranti contemporanei,ma non solo.

Secondo noi O.Z. non ha ancora raggiunto una sua giusta coerenza narrativa che, se ben esplicitata nella prima parte, più avanti viene tradita per l'esigenza di voler dire troppe cose e ciò incarta lo spettacolo che, per sbrogliarsi, alla fine si rifugia in una troppo facile retorica. Ma il progetto è secondo noi assolutamente significativo e, ulteriormente sfrondato e ricondotto nell'alveo della semplicità, potrebbe diventare veramente notevole, perchè già fin d'ora ben condotto sul piano della recitazione e delle invenzioni.

MARIO BIANCHI

OUT/ UNTERWASSER

In occasione del premio scenario infanzia avevamo già espresso il nostro apprezzamento per il venti minuti di “Out” della compagnia Unterwasser, creazione interamente progettata e costruita dalle capaci mani delle giovani Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia De Canio. Al Festival abbiamo assistito al suo completamento che ci è parso assolutamente in sintonia con le intenzioni e la buona riuscita del frammento già da noi visto alla finale del Premio Scenario.

“Out” racconta la storia di un bambino che tiene il suo cuore-uccellino chiuso nella gabbia del suo petto, per paura che possa smarrirsi o farsi male. Un giorno però l’uccellino, curioso di conoscere il mondo, scappa dalla finestra, costringendo il bambino a uscire di casa per la prima volta e a intraprendere un viaggio per inseguirlo. Il bambino attraverserà il mondo in tutti i suoi aspetti in un percorso di crescita e di conoscenza di se stesso. “Out” sperimenta a tutto tondo le potenzialità poetiche, evocative e comunicative del teatro di figura inserendole in uno spettacolo muto, dove la musica e i suoni vengono utilizzati come amplificatori del sentimento e del significato. Le tre giovani animatrici giocano con ombre, oggetti e forme di varie dimensioni e natura, costruendo ambienti e personaggi, assai diversi tra loro, tra cui, ci piace ricordare, una antica vecchia saggia dai cui cassetti della memoria il protagonista può attingere per diventare finalmente libero e autonomo. Uno spettacolo dunque bello e poetico, dove l'arte del teatro di figura può agevolmente uscire dalla tradizione per incamminarsi anche lui, come il bimbo protagonista della storia, verso nuovi orizzonti guidato come è stato da tre giovani animatrici.

MARIO BIANCHI


LA FAMOSA INVASIONE DEGLI ORSI IN SICILIA!IDIOTS SAVANTS /LUDWIG


Mauro Lamantia, Mattia Sartoni e Simone Tangolo, con la regia e la efficace bella drammaturgia di Filippo Rende, per la compagnia Idiot Savant/Ludwig, mettono in scena, utilizzando gioiosamente ombre, popazzi, la musica dal vivo, il Cabaret “La famosa Invasione degli orsi in Sicilia”, la favolosa storia scritta nel 1945 da Dino Buzzati che già avevamo visto utilizzata da altre compagnie a causa della sua originale componente fiabesca, assai accattivante.Il libro narra l'improbabile guerra tra gli esseri umani, guidati del Granduca di Sicilia e del suo alleato, il Sire di Molfetta con gli orsi, capitanati dal Re Leonzio, che scende dalle montagne alla ricerca del figlio Tonio, rapito anni prima da alcuni cacciatori.

Ambientato in una Sicilia remota, fuori dal tempo, la vicenda ha come ulteriore protagonista il professor De Ambrosiis, stregone ed ex astrologo di corte del Granduca che, attraverso una bacchetta magica, salverà sia gli orsi e se stesso dall'attacco da un esercito di cinghiali, sia il miracolosamente ritrovato Tonio, vigliaccamente ferito dal Granduca.Su una multiforme scena, acconciata a mo' di cartellone usato dai cantastorie, dove le ombre narrano i passi salienti della vicenda e da dove gli attori escono ed entrano, utilizzando, come detto, nel gioco del teatro nel teatro, diversi linguaggi, la vicenda si snoda piacevolmente, coinvolgendo anche il pubblico dei ragazzi in modo semplice ed inventivo anche attraverso la musica dal vivo.Spiace solo che, forse per una poca dimestichezza con il pubblico dei ragazzi, la recitazione dei tre attori sia spesso e volentieri sopra le righe, caricaturale e fuorviante. A nostro modo di vedere riportandola ad una più misurata e naturale dimensione, pur nella varietà degli accenti che lo spettacolo richiede, lo spettacolo acquisterebbe una sua più giusta valenza narrativa dando forza ad ogni altra sua componente.

MARIO BIANCHI


PICCOLA ODISSEA/SCARLATTINE

Secondo noi il coraggioso ed impegnativo esperimento compiuto dalla compagnia lombarda “Scarlattine” di riproporre ai più piccoli, quasi senza parole, attraverso un teatro fisico ed immaginifico, un racconto fondativo della nostra civiltà come Odissea, più che un vero e proprio spettacolo, si configura come un interessante progetto di creazione artistica, collettiva, da realizzare con i bambini, come è accaduto in modo proficuo nella sua composizione, effettuata con le scuole primarie di Sacile in Friuli in collaborazione con l'ERT. I bambini hanno lavorato sul tema del viaggio di Ulisse, tutti, divisi in tre moduli. Uno riguardante il segno grafico con Anna Fascendini, l'altro sulle ombre con Valeria Sacco di Riserva Canini e l'ultimo sul corpo sotto la guida di Giulietta de Bernardi. In questo modo i bambini sono potuti entrare in una storia che ancora non conoscevano, collaborando a ricreare le immagini che popolano” Piccola Odissea” presentato a Segnali e realizzato nell'ambito del meraviglioso e composito progetto “Meeting for Odissey”.Marco Mazza, Ulisse eroe curioso ed indomito, accompagnato da Francesca Cecala e Giulietta Debernardi, sotto le indicazioni sonore( progettate da Luigi Berardi e Arianna Sediolie create da Marcello Gori ) e visive eseguite dal vivo da Anna Fascendini, raccontano le principali avventure dell'eroe omerico dalla fuga di Troia al ritorno ad Itaca. Come si vede un progetto studiatissimo nella sua concezione di arte totale, visto come un concerto visivo e sonoro.

Infatti il movimento, il canto, le proiezioni di disegni sulle grandi vele di una barca ricreata sul palco( di Lando Francini) reinventano, attraverso le ombre di sagome e di corpi e il gioco del teatro nel teatro, le avventure dell'eroe omerico, mentre gli attori muniti solo di pochi oggetti, un cavallo ( di Franco Vismara), dei lunghi bastoni che sono lance, remi e tamburi, ci trasportano tra i personaggi e le situazioni più conosciute del poema omerico.Essendo alle prime repliche, a nostro avviso, la composita performance dovrebbe avere un ritmo meno concitato, dando modo agli attori di essere meno frenetici nelle azioni e più meditati nella resa dei vari episodi.Al di là di queste osservazioni, diversi i momenti di ottimo teatro, dall'entrata dei Troiani nella pancia del cavallo, a Scilla e Cariddi, anche se, su tutti, si erge la scena di Polifemo, in cui l'interazione tra senso, gioco di teatro nel teatro, parole e suono, condita da ironia, raggiunge i suoi risultati più alti.

Rimaniamo comunque convinti che “ Piccola Odissea” debba essere nell'ambito del teatro per l'infanzia , come del resto è stato, un bell'esempio di fervido accompagnamento alla creazione di uno spettacolo e dei vari linguaggi che lo attraversano, percorso che del resto è proprio del migliore teatro ragazzi.

MARIO BIANCHI


OPERATIVI/ FRATELLI CAPRONI ECCENTRICI DADARO'


L' 'anniversario dell' inizio della prima guerra mondiale è stato ricordato in mille maniere dal teatro ragazzi italiano e “Segnali” lo ha proposto attraverso due tra gli spettacoli più significativi del festival, il primo con la “Tregua” di Anfiteatro, attraverso la narrazione (di cui accludiamo le considerazioni di Elena Scolari al debutto dello spettacolo e la nuova recensione di Giulio Bellotto ) il secondo di cui ci accingiamo a parlare, attraverso la clownerie, dovuto alla curiosa e stimolante sinergia di due compagnie assai diverse tra loro come I Fratelli Caproni ed Eccentrici Dadaro' con la regia di Mario Gumina.Sulla scena assistiamo alle gag scatenate di un tedesco, un americano e un italiano, rispettivamente Andrea Ruberti, Dadde Visconti e Alessandro Larocca,, tre clown-soldati, reduci di tutte le guerre della storia, che arrivano alla guida della loro jeep militare per innalzare un monumento ai caduti di ogni guerra.Tutte le infinite ripetizioni di situazioni, di schemi, di gesti, di sopraffazioni e di vuote parole che abbiamo dolorosamente imparato inerenti alla guerra e al militarismo, vengono smontate ripetutamente attraverso la gestualità, concitata e tristemente surreale, nella sua disarmante realtà, dei tre eroi, loro malgrado.

Tra riferimenti ai fratelli Marx e Charlot, soprattutto, la stupidità della guerra è vista con gli occhi del feroce sarcasmo della clownerie, ma giustamente il riso amaro che aveva contraddistinto per molto tempo lo sguardo dello spettatore, improvvisamente si raggela nella seconda parte di questo importante ed intenso spettacolo, complice anche il bellissimo “Lacrimosa” di Zbigniew Preisner.La scena improvvisamente si spezza, la polvere ricopre ogni cosa, e la morte, in un colpo solo, si impadronisce della scena, ricordandoci come la guerra, anche la più giusta, alla fine sia sempre dolorosamente inutile .

MARIO BIANCHI


TRE PORCELLINI/GIALLOMARE MINIMAL TEATRO


Giallomare propone con la regia e la scenografia di Michelangelo Campanale
una versione “pittorica” della fiaba “I tre porcellini”, con l’ausilio di immagini tratte dalle opere del colombiano Fernando Botero, i cui pingui personaggi pastello ben si adattano a uno spettacolo per bambini.

Renzo Boldrini è Ultimo, fratello minore di Primo e Secondo, compare in scena con una gran valigia e un bell’abito turchese, buffo e impomatato ricorda un po’ la figura di Jacques Tati, nonostante la presenza scenica più imponente. Nella valigia stanno le miniature cartonate di tutta la famiglia, che riappaiono poi, in movimento, su un lungo schermo incorniciato che fa pensare ad una striscia come quelle dei fumetti, una bande dessinée sulla quale scorrono disegni animati coi quali Ultimo interagisce con buoni effetti di gioco scenico. Le immagini si fanno più cupe quando le paure dei bambini prendono corpo, in questo caso il corpo del lupo che rappresenta ciò che spaventa. Il risultato è una riuscita mistura di interpretazione dal tono ingenuo, Boldrini appare sufficientemente “leggero” e i bambini in sala hanno dimostrato di seguire con partecipazione attenta, dato non scontato.A nostro avviso c’è da lavorare ancora su una migliore amalgama tra la trama della fiaba e la comunicazione del “messaggio” (chiudere le paure dentro una cornice per poterle dominare), che risulta un po’ slegato dal racconto e forse troppo dipendente da una situazione “di famiglia”: è la solidarietà tra i fratelli - quindi tra pari - ad essere importante, dovrebbe essere meno calata nell’idea di nucleo del focolare.                            ELENA SCOLARI

COMPLEANNO AFGHANO/TEATRO CARGO

Laura Sicignano firma con Rama Safi un testo che è la vera storia di quest’ultimo: un ragazzo afghano che scappa dalla sua terra per sfuggire alle persecuzioni politiche dopo aver assisitito all’assassinio del padre da parte dei Talebani. Rama racconta il suo terribiile viaggio attraverso tanti paesi fino ai difficili giorni nel centro di accoglienza italiano, dal quale è poi approdato al teatro, grazie al progetto di Cargo.

Questo ragazzo forte, positivo, ancora romanticamente sentimentale nonostante le dure prove già affrontate, racconta le sue traversie senza commozione, l’inflessione è solo quella di una lingua ancora non completamente sua, non c’è variazione di tono al variare dei fatti. Rama si muove con precisione sul palco, esegue le azioni senza tentennamenti. Sta allestendo la sua festa di compleanno, il 18° compleanno, passato nel nuovo paese Italia. Ci sono palloncini da gonfiare, tovaglie, piatti e bicchieri di plastica colorata da sistemare, torte cui aggiungere le candeline, lucine da collocare e altre operazioni per apparecchiare la scena. Abbiamo l’impressione che queste azioni e gli schemi di movimento dettati da una regia molto presente, tendano a togliere spontaneità al racconto, non si raggiunge una sincera empatia con il protagonista e con la sua drammatica storia. Anche l’uso delle video proiezioni contribuisce ad un sapore più cronachistico che umanistico. L’impegno di Safi nel compiere i gesti di una drammaturgia scenica piuttosto “costruita” ostacola la giusta vicinanza emotiva tra spettatore e attore, in un caso dove la comprensione di un’odissea reale ha bisogno di passare anche attraverso i sentimenti.

ELENA SCOLARI

GRETA LA MATTA/OSMDYNAMICACTING

Leggiamo la presentazione di “Greta la matta” e ci accorgiamo di non aver còlto, nello spettacolo, molto di quanto è descritto nella scheda. Indubbiamente a teatro ci sono appigli che noi adulti cerchiamo e che invece ai bambini non servono, possiamo anche convenire sul fatto che l’abitudine a una certa convenzionalità del teatro ragazzi ci abbia in parte disabituato a ritenere adatte ai piccoli anche storie buie, cupe, negative. Ma rivendichiamo di poter valutare l’oliatura del meccanismo di uno spettacolo – tralasciando la gabbia della famigerata “fascia d’età” - dal punto di vista “meccanico”, diciamo, in quanto operai (più che operatori) teatrali e spettatori di esperienza.

In scena vediamo scelte estetiche raffinate, maschere molto belle, movimenti di gruppo ben disegnati, ma avvertiamo un eccessivo ermetismo nell’esplicitare il percorso di Greta nello svolgersi dell’intreccio. La protagonista compie un viaggio simbolico, la sua storia è tutta lì: una trasformazione di luogo, di aspetto, di stato d’animo, di condizione psicologica, che la porta addirittura a darsi la morte. Questi importantissimi cambiamenti non si avvertono: Greta rimane un tipo fisso come i pupazzi, attraversa situazioni che dovrebbero man mano cambiarla, la sua folle diversità è ciò che ne provoca l’alienazione, l’isolamento. Questo non è evidente, a nostro avviso, e trattandosi di un lavoro con pochissimo testo, un po’ più di umile leggibilità drammaturgica gioverebbe alla comprensione di un senso che soccombe ai grandi effetti “fumosi”, sui quali alcune scene indugiano anzichenò, lasciando anche noi in una nebbia non troppo facile a diradarsi.

ELENA SCOLARI

PIU’ VELOCE DI UN RAGLIO/CADA DIE TEATRO

Mauro Mou e Silvestro Ziccardi (in collaborazione con Alessandro Lay) danno vita alla libera trasposizione del racconto di Luigi Capuana “L’asino del gessaio”, con sapiente vivacità, una recitazione spumeggiante e ben calibrata tra effetti comici e ritmo narrativo. Cada Die Teatro dimostra di nuovo di saper maneggiare storie tradizionali con inventiva e tecnica seria, pochi elementi scenici sufficienti a dare l’idea del contesto contadino. Un autore siciliano affrontato da una compagnia sarda: un’isola che ne racconta un'altra passando attraverso stili e registri diversi con uguale capacità. C’è l’utilizzo del cuntu per la parte di battaglia della storia ma anche il tipico suono delle launeddas.

Si apprezza la bravura degli attori: Silvestro Ziccardi nel suo dinoccolato monologo corporale che descrive le caratteristiche dell’asino magro, storto, spelacchiato, con la coda scorticata, le zampe così rovinate che sembrava reggersi in piedi per miracolo. Queste qualità snocciolate a creare un tormentone diventano una filastrocca ma anche una piccola coreografia buffa accompagnata dalla chitarra di Mauro Mou, perfetta spalla in salopette asinina in sintonia col compagno.Non manca l’ironia: il funerale dell’asino che verrà sepolto in una piccola bara sopra la quale sarà delicatamente deposta una tenera carota.L’eroico asino spelacchiato della storia nasconde la capacità di correre più veloce di un raglio, al richiamo del padrone; questo spettacolo curato, ben scritto e soprattutto ben recitato ci ricorda quanto potere nasconda il saper padroneggiare l’alfabeto teatrale per ottenere molto senza alcun orpello.

ELENA SCOLARI

Un baule, qualche strumento musicale, due attori e un magico “Cera una volta”: è quanto basta alla compagnia sarda Cada Die Teatro per rappresentare lo spettacolo Più veloce di un raglio, una storia liberamente tratta da “L'asino del gessaio” di Luigi Capuana. L'interesse della compagnia per la narrazione orale e il lavoro sull'attore è subito dichiarato dalla maestria di Mauro Mou e Silvestro Ziccardi, che, come due “contastorie”, affabulatori di piazze, incantano il pubblico, catapultandolo con energia in una storia nella quale si mescolano gli odori aspri della campagna con il lusso delle corti. Ma re, principesse e cortigiani sono oggetto di esilaranti parodie, tipiche della fiaba popolare, nella quale è previsto che astuzia e genuinità risiedano nei personaggi più semplici, capaci, alla fine, di riscattarsi. L'essenzialità della scenografia invita lo spettatore a concentrarsi sui movimenti dei due attori, e, in particolare, del narratore principale, Silvestro Ziccardi, che, attraverso semplici caratterizzazioni, dai tratti talvolta giullareschi, e riproducendo il sovrapporsi caotico di voci e suoni con l'aiuto di Mauro Mou, che utilizza l'amplificazione del microfono, ci restituisce una galleria di personaggi che riusciamo a vedere nitidamente sulla scena. La musica svolge un ruolo essenziale: spesso accompagna la voce del narratore, che la utilizza per ritmare la storia, narrata, in alcuni punti, attraverso l'uso della rima, alla quale si ricorre soprattutto nei momenti più concitati del racconto. Musica, rima, ironia, doppi sensi, descrizioni macabre, come quella dell'asino dilaniato dal quale viene fuori un bellissimo principe, finalmente liberato da una maledizione, sono tutte caratteristiche tipiche della fiaba popolare, alla quale non poteva mancare, insieme al lieto fine, anche una morale, la cui particolarità sta nell'assenza di buonismo. Manca, per fortuna, la volontà di spiegare come anche un asino “magro, storto, spelacchiato, con la coda scorticata, le zampe così rovinate che sembrava reggersi in piedi per miracolo” possa ottenere infine il suo riscatto. Saranno finalmente i bambini a dare un senso al racconto, ognuno secondo la propria sensibilità, anche perché pare che non ci sia nulla da aggiungere a questa storia, che si presenta come uno spartito perfetto ed eccellentemente eseguito. A questo proposito è interessante citare le parole pronunciate dagli attori alla fine della narrazione, parole che sembrano racchiudere il vero compito dell'artista: “se la storia vi è piaciuta ne siamo lieti, se non vi è piaciuta restituitecela”.

NELLA CALIFANO




LA TREGUA/ANFITEATRO

Fiandre, 1914, dicembre. 24 dicembre. La vigilia di Natale in trincea. Le trincee della Grande Guerra sono terribili, sono piene di sangue, topi, fango, freddo, cadaveri, morte. Sono l’inferno. Un inferno popolato di ragazzini, anche adolescenti, sedotti dalla chiamata alle armi e dalla difesa della patria, spinti dai loro professori ad arruolarsi per contribuire alla gloria (o alla disfatta) del proprio paese, pena l’etichetta di codardo.

Proprio come in All’ovest niente di nuovo (film del 1930 diretto da Lewis Milestone, splendido e straziante) cui La tregua della compagnia Anfiteatro di Como fa un implicito omaggio, lo spettacolo ci racconta la gigantesca stupidità di un conflitto crudele anche perché mal gestito, male organizzato, nel quale i soldati sono stati letteralmente mandati a morire, a mucchi.....

Pino di Bello riesce a bilanciare le note dolorose di una descrizione di guerra difficile da sopportare, faticosa da immaginare, con la tenerezza dell’episodio centrale su cui lo spettacolo si concentra: sul confine tra Francia e Belgio i soldati tedeschi sono davanti a quelli inglesi (scozzesi e irlandesi) da mesi, su entrambi i fronti logorati da bombardamenti ininterrotti e dal continuo susseguirsi di attacchi e ritirate. Nella notte di natale del 1914 un tedesco sente la festa più forte della guerra e improvvisamente intona “Stille nacht”, dapprima il silenzio lo circonda ma poi lo spirito – forse anche grazie al cognac recapitato coi pacchi natalizi – contagia i suoi commilitoni, e poi anche gli inglesi si uniscono al coro, tutti cantano. Tutti cantano la stessa canzone e per qualche ora gli ordini di non familiarizzare col nemico vengono ignorati, si suona insieme, si parla, si mangia cioccolato e si fumano sigari, si gioca a pallone con le porte segnate da barelle ed elmetti, senza guardare alle uniformi. Natale è Natale.

L’interpretazione di Marco Continanza ci aiuta in una lettura pulita di questo episodio perché è intensa ma non enfatica, a tratti perfino divertita ma sempre attenta al senso del racconto.1914 La tregua ha il merito di affrontare un fatto significativo della prima Guerra Mondiale in una maniera drammaturgicamente ben congegnata, anche pensando ai giovani spettatori. Nei tre anni e mezzo di guerra furono scritti quattro miliardi di lettere e di cartoline, di cui oltre due miliardi indirizzate dal fronte al paese, una cifra stupefacente, l’inserimento di alcuni di questi messaggi nella narrazione costruisce un’alternanza che dona ritmo alla durata, leggermente dilatata, dello spettacolo.La vicenda è focalizzata su un soldato in particolare, Alexander Mayer, perché concentrarsi su una persona rende più facile l’immedesimazione, altrimenti impedita dalla genericità dei “milioni di morti”, viene detto. E sarebbe meglio non dirlo, al pubblico. I trucchi che funzionano non si svelano…c’è retorica in questa Tregua teatrale? Un tantino, ma in giusta dose, in fondo. Qualche vezzo c’è ma i fatti narrati sono effettivamente straordinari e sentiamo un sollievo onesto per questo squarcio di umanità.C’è chi trova stucchevole la melassa versata su una sola notte senza morti quando già il giorno dopo tutti sono tornati a obbedire, combattere e uccidere. Vero. Ma quelle ore hanno mutato lo sguardo di chi le ha vissute, i soldati hanno agito con una consapevolezza nuova, a tutti si è schiarita la vista e più chiara è apparsa l’irragionevolezza di sparare ad altri uomini, di altri schieramenti, sì, ma più vicini di quanto non fossero i propri generali, anestetizzati dal dovere militare e dal superficiale rigore con cui si erano costretti ad agire. E’ già qualcosa.

ELENA SCOLARI |Dalla sua recensione su PAC paneacquaculture.net/ al debutto dello spettacolo

Come il passare della falce pareggia tutte le erbe del prato..."

Così nell'agosto del 1914, più di 100 anni fa, ebbe inizio la storia di un giovane uomo, divenuto soldato volontario insieme a tutti i suoi compagni di liceo. La Grande Guerra accolse tutti loro, persone fatte di terra e impastate di guerra, con il crepitio della mitragliatrice, il fragore dell'artiglieria, lo scoppiare delle bombe, come un grande campo di morte e fango.
Il testo di Giuseppe di Bello, autore e regista de "La tregua", racconta una storia particolare facendone il paradigma universale della condizione dell'uomo, ignorante del suo destino e illuso su proprio posto nel mondo,  ma attaccato coi denti e con le unghie alla vita e alla gioia di vivere. Lo spettacolo ripercorre un episodio realmente accaduto durante la Prima Guerra Mondiale: il 25 dicembre del 1914, quando la guerra era appena all'inizio ma era già durata troppo e tutti si stavano accorgendo che non sarebbe finita tanto presto come i generali avevano promesso. I due schieramenti si fronteggiavano nelle Fiandre; francesi e inglesi da una parte, tedeschi e austriaci dall'altra, impantanati ormai da mesi in una logorante guerra di posizione combattuta nelle condizioni disumane delle trincee, con assalti quotidiani nei quali molti soldati perdevano la vita nel tentativo di strappare qualche metro di terreno ai nemici, a costo di lastricarlo di cadaveri. Questa situazione disperata accomunava sia gli inglesi sia i tedeschi, senza distinzioni: ne "La tregua", così come nella realtà storica, la sensazione del male comune, dell'essere insieme in una trappola assurda e mortale, portò i soldati a scambiarsi doni e favori che rendessero la vita meno impossibile, a condividere il poco cibo che avevano, a fraternizzare sfidando l'accusa di tradimento, perfino a giocare pacificamente a calcio in una disordinata partita collettiva che molto aveva della festa di paese e molto poco della guerra.
E' una storia vera, dunque; ma è anche una storia di Natale, quel momento che non ha nulla a che fare col calendario ma riguarda solo l'animo umano e la sua capacità di non rassegnarsi e di reagire alle avversità e alle ingiustizie, scoprendo dei fratelli nei nei nemici e nei compagni. E' una storia vera, accaduta in Francia un secolo fa; ma è anche un evento senza tempo e senza luogo, che si ripete ogni volta che due soli uomini o due interi eserciti si dimostrano solidali l'uno con l'altro e si stringono la mano in segno di amicizia.
L'interpretazione di Marco Continanza, narratore capace nel corso del monologo a dare voce e sostanza ai diversi personaggi evocati, soldati, generali, genitori, è misurata d evocatrice. Sembra di vederlo, il passerotto che la notte del 24 dicembre spiccò il volo sorvolando come una cometa la terra di nessuno, stendendo dietro di sé la tregua come un velo leggero. Gli uomini che nel loro piccolo hanno fatto la storia si ritrovano nei pochi tratti decisi che li dipingono, senza accessori retorici, con l'onestà attenta al dettaglio di un quadro di Bruegel; queste piccole storie per un giorno sono diventate decisive e ora si impongono sul palco con la forza della spontanea ribellione alla morte, anima dell'arte e anelito di libertà e immortalità. 
Basta la lettera di un soldato, mandata a casa dal fronte, per disvelare questa bella storia di Natale sul cui sfondo si agita ancora la guerra che non conosce riposo. Oltre all'insistenza dei suoni, i fragori del combattimento, lo spettacolo si avvale di una scenografia d'effetto, amplificata dalle luci che da verdi virano al rosso verso la fine della narrazione, evocando sia il sangue che dopo il Natale del 1914 tornerà a scorrere a fiumi, sia immense distese di garofani simbolo di speranza futura. La scena è dominata infatti da una quinta che porta i segni di un proiettile d'artiglieria, un gran cratere ne annerisce il centro. Sembra un fiore; è inevitabile che richiami anche, per il suo fascino un po' inquietante, i grandi cicli iconografici delle combustioni di Alberto Burri, il cui lavoro viene citato dalla scenografa Laura Clerici nel 100° anniversario della nascita.
Ma la tregua, così come l'arte, è destinata a finire, a sfiorire. Le luci si spengono su una guerra che sta per ricominciare ad infuriare sugli uomini con tutta la sua brutalità; allo spettatore resta però quest'impressione, questo scorcio, questo sguardo attraverso la Storia. Attraverso la Pace, come una combustione di Burri o come un metafisico taglio di Fontana.
GIULIO BELLOTTO

IO ME LA GIOCO/TEATRO DEL BURATTO

L'adolescenza è quel periodo affascinante e tormentato della vita in cui si buttano all'aria i vecchi giochi e si cerca costantemente di trovarne di nuovi, con diverse e complesse regole, mettendo se stessi e gli altri in continua discussione. Ma quando il gioco diventa pericoloso, per se stessi e per gli altri, cosa si può fare?

La compagnia Teatro del Buratto, su testo e regia di Renata Coluccini, con la collaborazione della psicoterapeuta Maria Cristina Perilli, affronta proprio questa domanda: lo spettacolo "Io me la gioco", terzo capitolo della trilogia dedicata agli adolescenti che aveva già affrontato le dipendenze dal bere e dalla re, parla proprio del gioco e dei suoi pericoli nel raccontare le vicende di Giovanni: un adolescente la cui vita - amici, fidanzata, scuola, voglia di eccedere e trasgredire - viene immaginata e ricostruita dal padre che, a colloquio con un professore, fa l'amara scoperta che il figlio manca da scuola, da una settimana intera.( Ma vi è anche una intrigante versione con il professore che diventa una professoressa che poi diventa l'amico preferito di Giovanni) con Elisa Canfora

A partire da questa inaspettata notizia, grazie alla quale scopre di conoscere ben poco il suo ragazzo, con l'aiuto/confronto dell'insegnante, il padre prova a ricostruire le tappe del malessere del figlio. In un serrato gioco di scambio delle parti, simbolo del rapporto tra genitori e figli, si fa largo la necessità di una reciproca comprensione. Gli adulti scoprono così un mondo con il quale non riescono più ad entrare in contatto, e di cui non intuiscono i bisogni; l'età adolescenziale, questo momento della vita delicato e complesso, vede Giovanni e il suo amico Marco sprofondare nel vortice del gioco d'azzardo, forse una risposta ad una mancanza di attenzione, una cura che possa iniziarli alla complessità dell'età adulta.Del resto gli adulti appaiono nello spettacolo altrettanto confusi e sbandati, fino a risultare patetico nella loro impotenza di fronte al disagio che i loro figli provano rispetto al nuovo viaggio che stanno intraprendendo. Questo sentimento li conduce immancabilmente, sotto lo sguardo privilegiato dello spettatore/osservatore, ad incanalare le proprie giovani e incoscienti energie lungo strade che in realtà si rivelano vicoli ciechi, benché all'inizio possano sembrare più facili, più comode da percorrere. Il ruolo dei mass media, che pubblicizzano il gioco on-line mascherandolo con il buonismo di certi termini come 'gioco responsabile', è certamente fondamentale rispetto a queste scelte, e lo sottolinea l'utilizzo del contributo video ad opera del video artist Carlo Fusani. Si tratta di un vero e proprio bombardamento di immagini e di suoni continuamente ripetuti, dall'effetto ipnotico, che creano spaesamento, un mantra all'inverso, che non svuota ma riempie di angosce, divora energie e conduce all'unica forma possibile di reazione, il disinteresse verso la propria stessa vita. Il video è la principale componente di una scenografia altrimenti molto essenziale, che si avvale solo di un praticabile su cui gli attori interpretano i due ragazzi. L'impressione è che la generazione dei giovani guardi dall'alto i loro padri, prendendone al contempo le distanze nei comportamenti e negli atteggiamenti. Questo dualismo si può avvertire anche nella scelta di utilizzare un tono più serioso per la caratterizzazione del mondo adulto e più ironico per quello adolescenziale.

I due attori scelgono di rappresentare il mondo degli adulti e quello degli adolescenti utilizzando una serie di cliché che sfociano in godibili traslazioni semantiche. La confusione che assale in uguale maniera adulti e adolescenti si risolve in una solitudine che vede Giovanni allontanarsi dall'amico Marco, mentre parallelamente i due adulti, il genitore e l'insegnante, rappresentanti dell'universo familiare e dell'istituzione scolastica, riallacciano un dialogo incentrato sui ragazzi a loro affidati.

Dario De Falco e Stefano Panzeri si confrontano con le nuove generazioni a partire dal linguaggio, che è semplice e diretto, ma anche - va detto - ricco di stereotipi, che allontanano da una visione lucida e complessa delle cose. La dignità di un padre “in atto” e quella di un padre “in potenza”, cioè l'insegnante (anch'egli padre, in fondo, dei tanti ragazzi con i quali ogni giorno si incontra e si scontra) si confrontano, si specchiano e ci restituiscono l'immagine di una comprensione difficoltosa ma necessaria e necessariamente reciproca tra due generazioni. Alla fine, infatti, una lettera da parte di Giovanni ricorderà agli adulti l'importanza di un dialogo sincero, mettendosi a nudo, mettendosi in gioco, facendo dialogare le anime e non fantocci, proiezioni, stereotipi, appunto, dell'età che si rappresenta. Il climax raggiunto con la lettera, che ricorda l'espediente usato da Bisio ne Gli sdraiati dal famoso libro di Michele Serra, dimostra non solo la grande maturità di Giovanni, ma rappresenta la sua richiesta di aiuto e di ascolto nei confronti del padre; esattamente come il padre, e quindi per sineddoche la famiglia intera, si trova a chiedere con umiltà l'aiuto dell'istituzione scuola. Insomma, Io me la gioco è uno spettacolo semplice ma efficace - a differenza de Gli sdraiati del famoso Michele Serra, per essere chiari.

Ciò che resta emblematico rispetto al rapporto tra due generazioni è una frase che Giovanni scrive nella sua lettera: “Ho bisogno di un padre in forma di padre”.Io e te, dunque, non io adulto, tu adolescente. Solo in questo modo si potrebbe sperare di rompere il muro dell'incomunicabilità. Siamo di fronte ad un lavoro, quello del del Teatro del Buratto, con i giovani e per i giovani, che chiude una trilogia non tesa a dare risposte, ma piuttosto a riflettere non solo sulla condizione degli adolescenti, ma anche sul ruolo fondamentale degli adulti che prima di esprimere qualsiasi giudizio dovrebbero imparare a dire “Io me la gioco”.

GIULIO BELLOTTO E NELLA CALIFANO


SEMINO/LA LUNA NEL LETTO

Semino, della compagnia pugliese “La luna nel letto”, per la regia di Michelangelo Campanale, è una storia delicata, dolce e sospesa come le attese. Tra l'attesa e l'accadere c'è la cura, come quella per un semino che dovrà schiudersi e che, da subito, diventa metafora della crescita, della trasformazione, dell'apertura gioiosa verso la vita a partire dalla relazione con l'altro. Gli attori, Annarita De Michele e Daniele Lasorsa, raccontano una storia semplice e familiare, comunicando attraverso un linguaggio fisico che caratterizza l'essenza dei due personaggi. Lui, Mino, si muove a piccoli passettini, rigido, timoroso, impacciato; vive in una tana nella quale si rifugia e che sembra l'unico luogo in cui possa sentirsi sicuro, perché lì, al contrario del mondo esterno, ogni cosa è riconoscibile, immutabile, prevedibile. Lei volteggia leggera e si colora con abiti sempre nuovi, che si succedono come le stagioni; trasmette pace, sicurezza, vitalità, ha lo sguardo dolcemente sorridente, come una divinità che guardi dall'alto l'imperfezione delle proprie creature. Ma non interviene, piuttosto concede un segno, piccolo, ma pieno di senso: un semino che lascia su una panchina affinché Mino possa trovarlo, incoraggiando una relazione da lui continuamente negata. Grazie all'animazione video di Ines Cattabriga, noi spettatori seguiamo l'evoluzione di un semino umanizzato, che ci sorride sgambettando goffamente. Si tratta di immagini suggestive, proiettate su grandi teli bianchi, posizionati al centro della scena, che, nel raccontare la storia di una relazione, a partire da quella di un piccolo semino, mostrano l'invisibile, quello che accade dentro i personaggi, la magia della trasformazione. È un semino accolto e scacciato, il nostro, perché racchiude in sé la curiosità, ma anche il timore per ciò che potrebbe diventare, è lo stesso atteggiamento che spesso assumiamo nei confronti della vita. E allora forse, quel semino, potrebbe diventare un esercizio di felicità, potrebbe insegnare il segreto della nascita e della rinascita dopo l'inverno, che sembra sempre così lungo e minaccioso, potrebbe insegnare la gioia che segue all'accoglienza quando cessa la paura, la paura di vivere.

Intanto anche l'inverno passa e finalmente, insieme, l'uomo e la donna, sulle note di “Vento nel vento” di Battisti, guardano sbocciare un meraviglioso fiore, facendo capolino da una tana che, forse, è già diventata casa, e “la stagione nuova dietro il vetro che appannava fiorì”.

NELLA CALIFANO













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