
MAGGIO ALL'INFANZIA 2025/LA PRIMA PARTE DEL REORT DI EOLO
Dal 14 al 18 maggio 2025 in giro per la Puglia con Rossella Marchi e Arianna Baroni
C’è un tempo dell’anno, a cavallo tra la primavera e l’estate, in cui la scena teatrale del Sud si accende di sguardi nuovi e narrazioni potenti: è il tempo del Maggio all’Infanzia, festival di teatro per le nuove generazioni, che quest’anno ha celebrato la sua 28esima edizione a cura di Cecilia Cangelli e con la Direzione Artistica di Teresa Ludovico e la consulenza pedagogica di Giorgio Testa. Dal 14 al 18 maggio 2025 una comunità di operatori e operatrici del settore, artisti e artiste, compagnie, programmatori e programmatrici ha animato le giornate di visione condivisa e confronto critico in tre città della Puglia: Bari, con lo storico Teatro Kismet, da sempre cuore pulsante e simbolico di questo percorso, Ruvo di Puglia, con il suo Teatro Comunale affidato alla cura appassionata e illuminata della compagnia La luna nel Letto, e Molfetta, che ha aperto le porte di spazi significativi come la Cittadella degli Artisti, il Teatro Don Bosco e il Teatro Madonna della Rosa. Un festival che, anche quest’anno, si è confermato non solo come vetrina, ma come autentico osservatorio sulla scena nazionale del teatro per l’infanzia e l’adolescenza, mettendo in dialogo pratiche artistiche, poetiche differenti e urgenze espressive. Ventidue spettacoli, selezionati con cura e visione, hanno restituito il quadro di una ricerca viva e necessaria, segnata da una crescente attenzione alla qualità delle proposte e a una complessità tematica e formale che non ha timore di misurarsi con il presente, nella sua densità e nelle sue contraddizioni. Il Maggio all’Infanzia 2025 ha accolto e rilanciato linguaggi differenti dal teatro di figura alla narrazione, alla danza al teatro fisico, costruendo un mosaico sfaccettato in cui ogni opera ha contribuito ad alimentare un dialogo costante tra generazioni, territori e visioni. In un momento storico in cui le nuove generazioni reclamano spazi di ascolto e rappresentazione autentica, il festival ha saputo rispondere con uno sguardo plurale, accogliente e al tempo stesso esigente.
A seguire, le recensioni di una selezione di spettacoli che hanno animato questa 28esima edizione del Maggio all’Infanzia. Un percorso tra voci, visioni e linguaggi differenti, che prova a restituire non solo la qualità delle singole opere ma anche lo sguardo complesso e vivo che il festival ha saputo generare. Uno sguardo collettivo, in ascolto delle urgenze artistiche e delle trasformazioni profonde che abitano il teatro per le nuove generazioni.
KISS, Storia di un bacio perduto e ritrovato – Fondazione Sipario Toscana
C’è una tenerezza profonda al cuore di “Kiss, storia di un bacio perduto e ritrovato”, lo spettacolo scritto e interpretato da Serena Guardone dedicato ai bambini e bambine dai 5 anni, quella di un gesto semplice, quotidiano, che si fa viaggio. Un bacio, quello di una madre per il proprio figlio, prende vita, fugge dalla finestra e comincia un percorso straordinario attraverso luoghi, corpi e oggetti. Lo spettacolo si apre con un’immagine evocativa: un vecchio attraversa lo spazio, lentamente, in silenzio. Intorno a lui, un grande tavolo disseminato di oggetti. Non ne conosciamo ancora il senso ma la loro presenza suggerisce che ogni cosa avrà un tempo e un ruolo. Quando l’anziano scompare e appare la narratrice, tutto ha inizio: la storia si srotola, tra parole, immagini e accadimenti surreali. Il bacio vola, cade in un lago, viene inghiottito da una civetta, cucinato in un ristorante, finché non finisce dimenticato nella scatola di un negozio di anticaglie, dove, in una chiusura circolare e toccante, verrà ritrovato proprio da quel vecchio che era il bambino di allora. Il cuore dello spettacolo è sincero e l’idea che lo muove è delicata, poetica, capace di accendere l’immaginazione del pubblico. Ma il suo sviluppo drammaturgico non riesce sempre a stare al passo con questa idea interessante. Alcuni passaggi avrebbero bisogno di un ritmo più calibrato, di tagli mirati, di un respiro più controllato. Inoltre la scelta delle musiche appare come il punto più fragile dell’intera struttura: non sembrano infatti molto in dialogo con la narrazione e talvolta spezzano l’atmosfera smarrendo l’emozione. Serena Guardone tiene però la scena con generosità e autenticità ma ci sentiamo caldamente di suggerire di aiutare il lavoro includendo nel percorso uno sguardo esterno, capace di rivedere alcune scelte e di far emergere con più chiarezza la delicatezza che è già scritta nel cuore dello spettacolo. Kiss, storia di un bacio è uno spettacolo che tocca corde profonde, soprattutto quando parla, senza dirlo mai, del tempo che passa e dell’amore che non passa mai. A nostro avviso il suo viaggio non è ancora compiuto ma, con il giusto aiuto, potrebbe diventare un piccolo gioiello, un bacio da tenere in tasca per tutta una vita.
FARE UN FUOCO – Teatri di Bari, Fondazione Sipario Toscana, in collaborazione con INTI
C’è un silenzio, nella platea, che ha un peso specifico. È sospensione, empatia. E’ immersione. Un uomo cammina nella neve e noi camminiamo con lui. “Fare un fuoco”, liberamente ispirato ai “Racconti dello Yukon” di Jack London, è molto più di un racconto d’avventura. È un’esperienza condivisa, collettiva, una prova di immersione totale nel cuore freddo e luminoso della Natura selvaggia. Francesco Niccolini firma un testo teso come una corda nel gelo, avvincente e insieme profondamente umano e Luigi D’Elia, con un’interpretazione di rara intensità, la porta in scena nella sua forma più matura. Il suo corpo è racconto, la voce scava nella neve e incide nel ghiaccio. Il viaggio del protagonista si compie nel Grande Nord verso una miniera dove c’è una fortuna ma all’interno di una Natura che non perdona. Prima di partire, in un villaggio desolato, incontra una donna. Un incontro essenziale, arcaico, senza parole: sono l’unico uomo e l’unica donna sulla terra, legati da un patto invisibile che non ha bisogno di spiegazioni. È lei che gli lascia una voce nell’orecchio durante l’ultimo abbraccio: “Non dimenticare mai di fare un fuoco”. Il viaggio è reso vivo dalle musiche davvero in-calzanti di Giorgio Lazzarini che seguono e amplificano il respiro della narrazione e da un disegno luci, firmato da Francesco Dignitoso, che davvero incarna il termine “disegno” per la maestria di evocare paesaggi e abissi interiori. Ma è nella scrittura e nella narrazione che lo spettacolo trova la sua forza più autentica. Il ritmo è incalzante, mai forzato. Ogni accadimento arriva con la giusta maturazione, quando il pubblico è pronto a raccoglierlo. L’uomo non è solo: con lui c’è Lampo, un husky dal passo leggero e dallo sguardo fedele. È lui, alla fine, a salvargli la vita. Ma prima c’è il gelo. La fatica, l’errore, il pericolo. C’è una pozza d’acqua nascosta sotto la neve che gela un piede e con esso la speranza. C’è la paura che cresce, che si fa respiro corto. E quando, nel gesto estremo della sopravvivenza, pensa di sacrificare il suo cane Lampo per infilare le mani nel suo ventre caldo, dalla platea si alza un sussurro: “no!”, lieve ma deciso. È lì che il teatro compie il suo miracolo. Tutti, bambini e adulti, sono dentro quella lotta interiore. Ma sarà proprio Lampo a salvarlo, correndo a chiamare aiuto e riportando la donna e un altro uomo nel luogo in cui il protagonista sfinito, quasi perduto, giace. La solitudine si interrompe. La Natura è semplicemente se stessa: meravigliosa, crudele, necessaria. Il freddo entra nelle ossa, ma non fa paura: è lì per mostrarci chi siamo. E racconta l’uomo per quello che è: fragile, ostinato e capace di rinascere anche nell’istante prima della fine. “Fare un fuoco” è un atto di teatro che ne recupera la dimensione rituale nel senso più autentico. Una storia che racconta della fragilità umana davanti all’immenso. Un monito sussurrato: fai un fuoco dentro di te. E non lasciarlo spegnere. Un fuoco da portare dentro per quando farà buio.
NON E’ STATA LA MANO DI DIO – Teatro dei Cipis
C’è una voce che non ti aspetti a raccontare l’omicidio di don Peppe Diana. Una voce spezzata, che sembra chiedere scusa ancor prima di cominciare. È quella di Beppe, protagonista dello spettacolo Non è stata la mano di Dio, scritto e interpretato da Corrado La Grasta. Un giostraio da fiera, uno che in realtà è nomade dentro, uno che continua ad errare perché ormai la sua vita è segnata. Uno di quelli che ti invogliano a sparare ai palloncini con l’illusione di vincere un peluche diventa il centro di una storia di redenzione e verità. La scena: una postazione dove si spara ai palloncini, di quelle che si trovano nelle fiere e nei luna park, una sedia e una televisione antica di quelle che si tenevano nelle cucine di tanti anni fa da cui riaffiorano le immagini di funerali e servizi giornalistici. E un uomo con un guanto nero che copre più di una ferita fisica: cela una verità che si fa strada tra esitazioni e colpi di memoria. Perché Beppe è l’esecutore mancato di un delitto che ha macchiato per sempre Casal di Principe, è il sempliciotto del paese, colui che è stato reclutato dalla camorra per uccidere il parroco del paese diventato ormai scomodo: Don Peppe Diana. Corrado La Grasta costruisce un monologo che scivola via come un racconto improvvisato ma che nella sua apparente spontaneità rivela una scrittura chirurgica. Ogni battuta è frammento di una coscienza sporca che cerca ossigeno. Il registro scelto, popolare e immediato, tiene agganciato lo spettatore con un equilibrio perfetto tra tenerezza e disagio. Si ride con l’amaro in bocca. Si ascolta con un nodo alla gola: Beppe racconta di essersi sparato alla mano per cercare di evitare l’irreparabile, per cercare di avvisare don Peppe Diana del pericolo ma questo sacrificio sarà inutile. Non c’è retorica, solo una disperazione asciutta, senza orpelli. È il tentativo estremo e tardivo di non diventare un assassino. Ma Don Peppe muore ammazzato e con lui si seppellisce una parte della verità, sepolta da una campagna di fango che puzza di menzogne e codardia. La vecchia televisione mostra in alcuni momenti del racconto le immagini emblematiche delle altre figure della fede con storie importanti di impegno civile: Don Pino Puglisi, Oscar Romero, Don Tonino Bello e questo parallelo rende evidente come Don Peppe Diana abbia avuto meno spazio nel pensiero collettivo e come questo spettacolo dia voce a una figura che non ha avuto l’onore del racconto con la forza emotiva che meritava. “Non è stata la mano di Dio” porta in scena un uomo mediocre, confuso e colpevole ma proprio per questo profondamente umano. Al pubblico rimane il compito di non dimenticare perché la memoria continui ad essere sempre il miglior mezzo di passaggio della storia.
ROSSELLA MARCHI
ALBERT ED IO - Compagnia del Sole, Fondazione Sipario Toscana Onlus, Fondazione TRG
La collaborazione tra Compagnia del Sole, Fondazione Sipario Toscana Onlus e Fondazione TRG vede nascere “Albert eD io” con la regia di Marinella Anaclerio e con in scena un Flavio Albanese che sostiene una grande prova attoriale. “Albert eD io” è l’ultimo spettacolo di una trilogia sull’Universo in cui l’attore collabora con il drammaturgo Francesco Niccolini. In scena un eccentrico Einstein incontra al parco un bambino che gioca al gioco della campana con i dadi. Tira i dadi e si muove sulle caselle con i numeri disegnate a terra, ma non si muove, stranamente, sulle caselle dei numeri usciti. Il modo in cui gioca sembra completamente senza senso. Einstein lo interroga ma lui non risponde. La metafora è forte e ci viene spiegata durante lo spettacolo: anche gli elettroni si spostano all’interno dell’atomo, solo su certe orbite e con precise energie, per poi però saltare magicamente da un’orbita all’altra, e cioè, letteralmente, scomparire e ricomparire in un altro punto. Dove vadano in quello spazio/tempo non è chiaro. Detto in altri termini, l’elettrone salta da un livello di energia ad un altro senza assumere valori di energia intermedi. E così il “salto” nel gioco della campana diventa il cosiddetto “salto quantico”. Ma chi è questo bambino? Lo spettacolo ci suggerisce essere Dio, e persino Dio, come tutti i bambini, a molte battute di Einstein risponde domandando “Perché”. L’attore Flavio Albanese, solo in scena e circondato da una scenografia che ci riporta ad uno spazio aperto, un parco con un grande albero, interpreta entrambi i personaggi, Einstein eD io. Attraverso una narrazione calzante ci vengono spiegati concetti complessi della fisica e della fisica quantistica. La fisica quantistica si delinea come una disciplina che non resta reclusa nell’ambito scientifico ma che sfocia quasi nel filosofico, nell’esistenziale e come tante altre cose è potenzialmente infinita da studiare, ma è anche in particolar modo “viva” e, come il teatro, in continua relazione con la realtà anche nei suoi livelli meno visibili. Quali sono i limiti dell’universo? Quali sono le sue leggi? E come è nato? La Compagnia del sole consegna alle bambine e ai bambini la forza che può avere un’intuizione, la sensazione che, pur non capendo completamente qualcosa per la sua complessità ci si può comunque portare a casa qualcosa di importante. Einstein parla di Gedankenexperiment (esperimenti mentali), ovvero le intuizioni spesso utilizzate per illustrare i concetti complessi della fisica. Alcuni di essi sono stati verificati dopo la sua morte e per altri lui credeva fosse addirittura impossibile la dimostrazione. Data la portata dei contenuti sembra incredibile che tutto parta da un’intuizione, come da un’intuizione nascono un dipinto, un libro, uno spettacolo teatrale. Stare nel non sapere ma con la sensazione forte che tutto sarà più chiaro, a un certo punto, a una certa distanza. E da dove venga esattamente un’intuizione probabilmente non lo sapremo mai.
C’ERA UNA VOLTA L’AFRICA - Bottega degli Apocrifi
La nuova produzione di Bottega degli Apocrifi - C’era una volta l’Africa - di Stefania Marrone e Cosimo Severo, con la regia di Cosimo Severo, vede protagonista un interprete dalla fenomenale presenza scenica, l’attore Bakary Diaby. Bakary, che è in scena accompagnato solo da una pedana di legno leggermente inclinata verso di noi, ci racconta una storia ambientata in un villaggio africano, una storia vera, che alla fine scopriamo essere la sua storia, che esplode sul palco portando tutto il pubblico con sé. “L’ha raccontata da solo, ma non era solo. Perché quando una storia è vera, chi l’ha amata ci finisce dentro, che lo voglia o no”, scrivono gli Apocrifi. Bakary ci porta con sé, ci custodisce per un’ora, e poi ci riporta al presente, sempre con delicatezza. Le bellissime video animazioni di Giovanni Antonio Salvemini, di supporto alla narrazione, ci conducono in un mondo stilizzato in bianco e nero leggermente traballante, di cui ci rimangono forti dentro le immagini di un albero, degli occhi, di una madre. Una dolce voce femminile, quella di Rosalba Mondelli, ci accompagna insieme alle luci di Cosimo Severo e Luca Pompilio, costruite con sapienza e precisione. La storia parla di un bambino che cresce in un villaggio in cui tutti si conoscono e che ha, alle sue estremità, un enorme baobab. Bakary corre veloce come il vento, gioca con gli altri bambini del villaggio con cui, a volte, rubano le banane rimanendo vittime di un incantesimo che solo il proprietario del bananeto può sciogliere. La polenta è il piatto preferito di Bakary e spesso tenta di rubarla alla madre. Una mattina presto corre a nasconderla sotto il grande albero, gli pare di sentire da lontano tutto il villaggio svegliarsi nonostante il buio, ed è convinto che tutti stiano cercando lui. Torna piano al villaggio e si accorge che in verità nessuno sta cercando lui. Cercano tutti il padre di Bakary, un uomo cieco che quella sera non è tornato a casa. E sarà proprio questo lutto che porterà con sé una decisione importantissima: partire. Senza dirlo a nessuno, nemmeno alla mamma. Nessuno di quella terra dice mai quando parte perché così, se fallisce, non deve a nessuno spiegazioni. Un viaggio di cui non si sa nulla quando inizia. Una partenza che porta con sé qualcosa che resta nascosto a lungo. Qualcosa che si racconta solo dopo, quando si è pronti, quando si è arrivati. Dopo la visione di “C’era una volta in Africa” non possiamo non riflettere sulla enorme differenza che esiste tra il contagio emotivo, l’essere realmente coinvolti e le emozioni filtrate da qualsiasi “schermo” interno o esterno a noi, da una distanza. Il teatro per fortuna esiste solo con l’incontro, e ripensando a questo incontro con Bakary, la commozione riaffiora.
ARIANNA BARONI
Dal 14 al 18 maggio 2025 in giro per la Puglia con Rossella Marchi e Arianna Baroni

C’è un tempo dell’anno, a cavallo tra la primavera e l’estate, in cui la scena teatrale del Sud si accende di sguardi nuovi e narrazioni potenti: è il tempo del Maggio all’Infanzia, festival di teatro per le nuove generazioni, che quest’anno ha celebrato la sua 28esima edizione a cura di Cecilia Cangelli e con la Direzione Artistica di Teresa Ludovico e la consulenza pedagogica di Giorgio Testa. Dal 14 al 18 maggio 2025 una comunità di operatori e operatrici del settore, artisti e artiste, compagnie, programmatori e programmatrici ha animato le giornate di visione condivisa e confronto critico in tre città della Puglia: Bari, con lo storico Teatro Kismet, da sempre cuore pulsante e simbolico di questo percorso, Ruvo di Puglia, con il suo Teatro Comunale affidato alla cura appassionata e illuminata della compagnia La luna nel Letto, e Molfetta, che ha aperto le porte di spazi significativi come la Cittadella degli Artisti, il Teatro Don Bosco e il Teatro Madonna della Rosa. Un festival che, anche quest’anno, si è confermato non solo come vetrina, ma come autentico osservatorio sulla scena nazionale del teatro per l’infanzia e l’adolescenza, mettendo in dialogo pratiche artistiche, poetiche differenti e urgenze espressive. Ventidue spettacoli, selezionati con cura e visione, hanno restituito il quadro di una ricerca viva e necessaria, segnata da una crescente attenzione alla qualità delle proposte e a una complessità tematica e formale che non ha timore di misurarsi con il presente, nella sua densità e nelle sue contraddizioni. Il Maggio all’Infanzia 2025 ha accolto e rilanciato linguaggi differenti dal teatro di figura alla narrazione, alla danza al teatro fisico, costruendo un mosaico sfaccettato in cui ogni opera ha contribuito ad alimentare un dialogo costante tra generazioni, territori e visioni. In un momento storico in cui le nuove generazioni reclamano spazi di ascolto e rappresentazione autentica, il festival ha saputo rispondere con uno sguardo plurale, accogliente e al tempo stesso esigente.
A seguire, le recensioni di una selezione di spettacoli che hanno animato questa 28esima edizione del Maggio all’Infanzia. Un percorso tra voci, visioni e linguaggi differenti, che prova a restituire non solo la qualità delle singole opere ma anche lo sguardo complesso e vivo che il festival ha saputo generare. Uno sguardo collettivo, in ascolto delle urgenze artistiche e delle trasformazioni profonde che abitano il teatro per le nuove generazioni.

KISS, Storia di un bacio perduto e ritrovato – Fondazione Sipario Toscana
C’è una tenerezza profonda al cuore di “Kiss, storia di un bacio perduto e ritrovato”, lo spettacolo scritto e interpretato da Serena Guardone dedicato ai bambini e bambine dai 5 anni, quella di un gesto semplice, quotidiano, che si fa viaggio. Un bacio, quello di una madre per il proprio figlio, prende vita, fugge dalla finestra e comincia un percorso straordinario attraverso luoghi, corpi e oggetti. Lo spettacolo si apre con un’immagine evocativa: un vecchio attraversa lo spazio, lentamente, in silenzio. Intorno a lui, un grande tavolo disseminato di oggetti. Non ne conosciamo ancora il senso ma la loro presenza suggerisce che ogni cosa avrà un tempo e un ruolo. Quando l’anziano scompare e appare la narratrice, tutto ha inizio: la storia si srotola, tra parole, immagini e accadimenti surreali. Il bacio vola, cade in un lago, viene inghiottito da una civetta, cucinato in un ristorante, finché non finisce dimenticato nella scatola di un negozio di anticaglie, dove, in una chiusura circolare e toccante, verrà ritrovato proprio da quel vecchio che era il bambino di allora. Il cuore dello spettacolo è sincero e l’idea che lo muove è delicata, poetica, capace di accendere l’immaginazione del pubblico. Ma il suo sviluppo drammaturgico non riesce sempre a stare al passo con questa idea interessante. Alcuni passaggi avrebbero bisogno di un ritmo più calibrato, di tagli mirati, di un respiro più controllato. Inoltre la scelta delle musiche appare come il punto più fragile dell’intera struttura: non sembrano infatti molto in dialogo con la narrazione e talvolta spezzano l’atmosfera smarrendo l’emozione. Serena Guardone tiene però la scena con generosità e autenticità ma ci sentiamo caldamente di suggerire di aiutare il lavoro includendo nel percorso uno sguardo esterno, capace di rivedere alcune scelte e di far emergere con più chiarezza la delicatezza che è già scritta nel cuore dello spettacolo. Kiss, storia di un bacio è uno spettacolo che tocca corde profonde, soprattutto quando parla, senza dirlo mai, del tempo che passa e dell’amore che non passa mai. A nostro avviso il suo viaggio non è ancora compiuto ma, con il giusto aiuto, potrebbe diventare un piccolo gioiello, un bacio da tenere in tasca per tutta una vita.
FARE UN FUOCO – Teatri di Bari, Fondazione Sipario Toscana, in collaborazione con INTI
C’è un silenzio, nella platea, che ha un peso specifico. È sospensione, empatia. E’ immersione. Un uomo cammina nella neve e noi camminiamo con lui. “Fare un fuoco”, liberamente ispirato ai “Racconti dello Yukon” di Jack London, è molto più di un racconto d’avventura. È un’esperienza condivisa, collettiva, una prova di immersione totale nel cuore freddo e luminoso della Natura selvaggia. Francesco Niccolini firma un testo teso come una corda nel gelo, avvincente e insieme profondamente umano e Luigi D’Elia, con un’interpretazione di rara intensità, la porta in scena nella sua forma più matura. Il suo corpo è racconto, la voce scava nella neve e incide nel ghiaccio. Il viaggio del protagonista si compie nel Grande Nord verso una miniera dove c’è una fortuna ma all’interno di una Natura che non perdona. Prima di partire, in un villaggio desolato, incontra una donna. Un incontro essenziale, arcaico, senza parole: sono l’unico uomo e l’unica donna sulla terra, legati da un patto invisibile che non ha bisogno di spiegazioni. È lei che gli lascia una voce nell’orecchio durante l’ultimo abbraccio: “Non dimenticare mai di fare un fuoco”. Il viaggio è reso vivo dalle musiche davvero in-calzanti di Giorgio Lazzarini che seguono e amplificano il respiro della narrazione e da un disegno luci, firmato da Francesco Dignitoso, che davvero incarna il termine “disegno” per la maestria di evocare paesaggi e abissi interiori. Ma è nella scrittura e nella narrazione che lo spettacolo trova la sua forza più autentica. Il ritmo è incalzante, mai forzato. Ogni accadimento arriva con la giusta maturazione, quando il pubblico è pronto a raccoglierlo. L’uomo non è solo: con lui c’è Lampo, un husky dal passo leggero e dallo sguardo fedele. È lui, alla fine, a salvargli la vita. Ma prima c’è il gelo. La fatica, l’errore, il pericolo. C’è una pozza d’acqua nascosta sotto la neve che gela un piede e con esso la speranza. C’è la paura che cresce, che si fa respiro corto. E quando, nel gesto estremo della sopravvivenza, pensa di sacrificare il suo cane Lampo per infilare le mani nel suo ventre caldo, dalla platea si alza un sussurro: “no!”, lieve ma deciso. È lì che il teatro compie il suo miracolo. Tutti, bambini e adulti, sono dentro quella lotta interiore. Ma sarà proprio Lampo a salvarlo, correndo a chiamare aiuto e riportando la donna e un altro uomo nel luogo in cui il protagonista sfinito, quasi perduto, giace. La solitudine si interrompe. La Natura è semplicemente se stessa: meravigliosa, crudele, necessaria. Il freddo entra nelle ossa, ma non fa paura: è lì per mostrarci chi siamo. E racconta l’uomo per quello che è: fragile, ostinato e capace di rinascere anche nell’istante prima della fine. “Fare un fuoco” è un atto di teatro che ne recupera la dimensione rituale nel senso più autentico. Una storia che racconta della fragilità umana davanti all’immenso. Un monito sussurrato: fai un fuoco dentro di te. E non lasciarlo spegnere. Un fuoco da portare dentro per quando farà buio.
NON E’ STATA LA MANO DI DIO – Teatro dei Cipis
C’è una voce che non ti aspetti a raccontare l’omicidio di don Peppe Diana. Una voce spezzata, che sembra chiedere scusa ancor prima di cominciare. È quella di Beppe, protagonista dello spettacolo Non è stata la mano di Dio, scritto e interpretato da Corrado La Grasta. Un giostraio da fiera, uno che in realtà è nomade dentro, uno che continua ad errare perché ormai la sua vita è segnata. Uno di quelli che ti invogliano a sparare ai palloncini con l’illusione di vincere un peluche diventa il centro di una storia di redenzione e verità. La scena: una postazione dove si spara ai palloncini, di quelle che si trovano nelle fiere e nei luna park, una sedia e una televisione antica di quelle che si tenevano nelle cucine di tanti anni fa da cui riaffiorano le immagini di funerali e servizi giornalistici. E un uomo con un guanto nero che copre più di una ferita fisica: cela una verità che si fa strada tra esitazioni e colpi di memoria. Perché Beppe è l’esecutore mancato di un delitto che ha macchiato per sempre Casal di Principe, è il sempliciotto del paese, colui che è stato reclutato dalla camorra per uccidere il parroco del paese diventato ormai scomodo: Don Peppe Diana. Corrado La Grasta costruisce un monologo che scivola via come un racconto improvvisato ma che nella sua apparente spontaneità rivela una scrittura chirurgica. Ogni battuta è frammento di una coscienza sporca che cerca ossigeno. Il registro scelto, popolare e immediato, tiene agganciato lo spettatore con un equilibrio perfetto tra tenerezza e disagio. Si ride con l’amaro in bocca. Si ascolta con un nodo alla gola: Beppe racconta di essersi sparato alla mano per cercare di evitare l’irreparabile, per cercare di avvisare don Peppe Diana del pericolo ma questo sacrificio sarà inutile. Non c’è retorica, solo una disperazione asciutta, senza orpelli. È il tentativo estremo e tardivo di non diventare un assassino. Ma Don Peppe muore ammazzato e con lui si seppellisce una parte della verità, sepolta da una campagna di fango che puzza di menzogne e codardia. La vecchia televisione mostra in alcuni momenti del racconto le immagini emblematiche delle altre figure della fede con storie importanti di impegno civile: Don Pino Puglisi, Oscar Romero, Don Tonino Bello e questo parallelo rende evidente come Don Peppe Diana abbia avuto meno spazio nel pensiero collettivo e come questo spettacolo dia voce a una figura che non ha avuto l’onore del racconto con la forza emotiva che meritava. “Non è stata la mano di Dio” porta in scena un uomo mediocre, confuso e colpevole ma proprio per questo profondamente umano. Al pubblico rimane il compito di non dimenticare perché la memoria continui ad essere sempre il miglior mezzo di passaggio della storia.
ROSSELLA MARCHI

ALBERT ED IO - Compagnia del Sole, Fondazione Sipario Toscana Onlus, Fondazione TRG
La collaborazione tra Compagnia del Sole, Fondazione Sipario Toscana Onlus e Fondazione TRG vede nascere “Albert eD io” con la regia di Marinella Anaclerio e con in scena un Flavio Albanese che sostiene una grande prova attoriale. “Albert eD io” è l’ultimo spettacolo di una trilogia sull’Universo in cui l’attore collabora con il drammaturgo Francesco Niccolini. In scena un eccentrico Einstein incontra al parco un bambino che gioca al gioco della campana con i dadi. Tira i dadi e si muove sulle caselle con i numeri disegnate a terra, ma non si muove, stranamente, sulle caselle dei numeri usciti. Il modo in cui gioca sembra completamente senza senso. Einstein lo interroga ma lui non risponde. La metafora è forte e ci viene spiegata durante lo spettacolo: anche gli elettroni si spostano all’interno dell’atomo, solo su certe orbite e con precise energie, per poi però saltare magicamente da un’orbita all’altra, e cioè, letteralmente, scomparire e ricomparire in un altro punto. Dove vadano in quello spazio/tempo non è chiaro. Detto in altri termini, l’elettrone salta da un livello di energia ad un altro senza assumere valori di energia intermedi. E così il “salto” nel gioco della campana diventa il cosiddetto “salto quantico”. Ma chi è questo bambino? Lo spettacolo ci suggerisce essere Dio, e persino Dio, come tutti i bambini, a molte battute di Einstein risponde domandando “Perché”. L’attore Flavio Albanese, solo in scena e circondato da una scenografia che ci riporta ad uno spazio aperto, un parco con un grande albero, interpreta entrambi i personaggi, Einstein eD io. Attraverso una narrazione calzante ci vengono spiegati concetti complessi della fisica e della fisica quantistica. La fisica quantistica si delinea come una disciplina che non resta reclusa nell’ambito scientifico ma che sfocia quasi nel filosofico, nell’esistenziale e come tante altre cose è potenzialmente infinita da studiare, ma è anche in particolar modo “viva” e, come il teatro, in continua relazione con la realtà anche nei suoi livelli meno visibili. Quali sono i limiti dell’universo? Quali sono le sue leggi? E come è nato? La Compagnia del sole consegna alle bambine e ai bambini la forza che può avere un’intuizione, la sensazione che, pur non capendo completamente qualcosa per la sua complessità ci si può comunque portare a casa qualcosa di importante. Einstein parla di Gedankenexperiment (esperimenti mentali), ovvero le intuizioni spesso utilizzate per illustrare i concetti complessi della fisica. Alcuni di essi sono stati verificati dopo la sua morte e per altri lui credeva fosse addirittura impossibile la dimostrazione. Data la portata dei contenuti sembra incredibile che tutto parta da un’intuizione, come da un’intuizione nascono un dipinto, un libro, uno spettacolo teatrale. Stare nel non sapere ma con la sensazione forte che tutto sarà più chiaro, a un certo punto, a una certa distanza. E da dove venga esattamente un’intuizione probabilmente non lo sapremo mai.
La nuova produzione di Bottega degli Apocrifi - C’era una volta l’Africa - di Stefania Marrone e Cosimo Severo, con la regia di Cosimo Severo, vede protagonista un interprete dalla fenomenale presenza scenica, l’attore Bakary Diaby. Bakary, che è in scena accompagnato solo da una pedana di legno leggermente inclinata verso di noi, ci racconta una storia ambientata in un villaggio africano, una storia vera, che alla fine scopriamo essere la sua storia, che esplode sul palco portando tutto il pubblico con sé. “L’ha raccontata da solo, ma non era solo. Perché quando una storia è vera, chi l’ha amata ci finisce dentro, che lo voglia o no”, scrivono gli Apocrifi. Bakary ci porta con sé, ci custodisce per un’ora, e poi ci riporta al presente, sempre con delicatezza. Le bellissime video animazioni di Giovanni Antonio Salvemini, di supporto alla narrazione, ci conducono in un mondo stilizzato in bianco e nero leggermente traballante, di cui ci rimangono forti dentro le immagini di un albero, degli occhi, di una madre. Una dolce voce femminile, quella di Rosalba Mondelli, ci accompagna insieme alle luci di Cosimo Severo e Luca Pompilio, costruite con sapienza e precisione. La storia parla di un bambino che cresce in un villaggio in cui tutti si conoscono e che ha, alle sue estremità, un enorme baobab. Bakary corre veloce come il vento, gioca con gli altri bambini del villaggio con cui, a volte, rubano le banane rimanendo vittime di un incantesimo che solo il proprietario del bananeto può sciogliere. La polenta è il piatto preferito di Bakary e spesso tenta di rubarla alla madre. Una mattina presto corre a nasconderla sotto il grande albero, gli pare di sentire da lontano tutto il villaggio svegliarsi nonostante il buio, ed è convinto che tutti stiano cercando lui. Torna piano al villaggio e si accorge che in verità nessuno sta cercando lui. Cercano tutti il padre di Bakary, un uomo cieco che quella sera non è tornato a casa. E sarà proprio questo lutto che porterà con sé una decisione importantissima: partire. Senza dirlo a nessuno, nemmeno alla mamma. Nessuno di quella terra dice mai quando parte perché così, se fallisce, non deve a nessuno spiegazioni. Un viaggio di cui non si sa nulla quando inizia. Una partenza che porta con sé qualcosa che resta nascosto a lungo. Qualcosa che si racconta solo dopo, quando si è pronti, quando si è arrivati. Dopo la visione di “C’era una volta in Africa” non possiamo non riflettere sulla enorme differenza che esiste tra il contagio emotivo, l’essere realmente coinvolti e le emozioni filtrate da qualsiasi “schermo” interno o esterno a noi, da una distanza. Il teatro per fortuna esiste solo con l’incontro, e ripensando a questo incontro con Bakary, la commozione riaffiora.
ARIANNA BARONI

