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IL REPORT DI ''COLPI DI SCENA'' 2022
TRA FAENZA E FORLI' DAL 28 GIUGNO AL 1 LUGLIO

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Con la consueta elegante e sontuosa ospitalità di Claudio Casadio e Ruggero Sintoni di Accademia Perduta e del loro meraviglioso staff ( Linda Eroli, Monica Bartolini, Paola Storari, Ivan Caroli, Cristina Valgimigli, Margherita Favali, Veronica Bassani, Alberto Ricci, Roberta Pugliese) siamo stati affezionati ospiti della dodicesima edizioni di "Colpi di scena", la stimolante rassegna destinata agli operatori e dedicata alle nuove produzioni di teatro ragazzi che ha visto quest'anno la nuova partnership di Ater Fondazione. L’importante biennale di teatro contemporaneo per le giovani generazioni si è tenuta tra Forlì e Faenza dal 28 giugno al 1° luglio e ha visto anche la presenza di numerosi operatori stranieri. Tre sono state le compagnie straniere ospitate : la svizzera PerpetuoMobile Teatro e le olandesi Simone de Jong e Dadodans , con un focus particolare alla nuova scena olandese dedicata al Teatro Ragazzi. In questa 12° edizione di Colpi di scena nei 4 giorni di programmazione sono stati presentati diciotto spettacoli. Il programma ha previsto un’ampia rappresentanza di realtà regionali, comprendente nuovi spettacoli di quattro centri di produzione dell'Emilia Romagna : oltre alla stessa Accademia Perduta/RomagnaTeatri di Forlì, anche Solares Fondazione delle Arti – Teatro delle Briciole di Parma, Teatro Gioco Vita di Piacenza, La Baracca – Testoni Ragazzi di Bologna, e di 4  compagnie Teatro Perdavvero, Teatro Evento, Teatro Due Mondi, TCP Tanti Cosi Progetti. Colpi di Scena poi ha ospitato nuove produzioni di formazioni provenienti da tutta Italia : Madame Rebiné, Compagnia del Sole, Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani onlus, Mandara Ké, Drogheria Rebelot, Equilibrio Dinamico Dance Company / La Luna nel Letto.
Un'edizione che  ci è parsa al di sotto delle aspettative con pochi spettacoli davvero totalmente significativi, molti ancora da registrare, come è anche in parte giusto, dopo il debutto ma in definitiva in linea con quello visto negli altri festival. Dopo la partenza con il botto dell'anno scorso con diversi spettacoli notevoli creati durante il chiuso della Pandemia, quest'anno dobbiamo dire che si fa' fatica a carburare. Si dovrà ricominciare a sperimentare, a non fare obbligatoriamente una nuova produzione ogni anno. Solo una “Hermit” ( bellissima) in definitiva e, per di più, straniera, è stata la creazione dedicata agli spettatori più piccoli che testimonia ancora l'incapacità del teatro ragazzi italiano di parlare ai piccolissimi.
Non potendo parlare di tutte le 18 nuove creazioni Eolo si soffermerà solo su alcune con lo sguardo del direttore Mario Bianchi e di Fabrizio Giuliani, il veterano dei partecipanti al Corso di critica teatrale dedicata all'infanzia organizzato da Hystrio, Assitej e Demetra formazione. Aggiungeremo anche alcune altre recensioni provenienti dai loro blog di Tommaso Chimenti e Michele Pascarella, osservatori sporadici del Teatro ragazzi ( per cui graditissimi e proficui) ma sempre attenti in modo acuto a ciò che il teatro italiano offre. Sono stati davvero alla fine in definitiva comunque 4 giorni bellissimi e stimolanti, coronati dalla particolarissima e attesa festa finale, dai pranzi di comunità, inframmezzati fra l'altro da un particolarissimo e gradito omaggio a Rossini del Teatro Due Mondi, "Rossini Flambè", che hanno visto riunirsi ancora una volta tutti gli operatori del teatro ragazzi italiano dopo gli anni faticosissimi dovuti alla Pandemia.

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Flavio Albanese della Compagnia Del Sole che lo produce con Accademia Perduta e la FTRG di Torino, diretto da Marinella Anaclerio, attraverso la sua inconfondibile e duttile voce, con la scrittura di Francesco Niccolini, torna dopo “L’Universo è un materasso” a solcare l'infinito con “ Il messaggero delle stelle”, impersonando l'inglese Astolfo, il celeberrimo paladino di Carlo Magno, reinventato dall'Ariosto, che, mentre cerca sulla luna il senno del povero Orlando, perduto a causa del suo folle amore per la bella Angelica, si ritrova, un po' spaesato, in un consesso del tutto inaspettato. Infatti scopriamo a poco a poco e in modo impastato di fiabesco stupore che davanti a lui siedono, tra gli altri, nientemeno che Galileo, Keplero, Copernico e Newton. Saranno loro ad accoglierlo e ad aprirlo ai misteri della conoscenza, dove il dubbio e l’errore regnano sovrani, comprendendo, come del resto fa lo spettatore, quanto sia complicata e affascinante, non solo la strada della conoscenza, ma anche quella della libertà di pensiero e della scienza, che insieme devono essere sempre connesse, come gli dice Giordano Bruno, che ben conosce queste cose. Tra versi surreali, un po’ di scienza e molta patafisica, il nostro Astolfo diventerà un vero e proprio “messaggero delle stelle”. Flavio Albanese ha la capacità di entrare in sintonia diretta con lo spettatore, proiettandolo in cielo accanto a lui e, con lui, avvicinarlo ai difficili concetti che la bellissima scrittura di Niccolini rende comprensibili, utilizzando non solo l’arma della rima ma anche quella della benefica ironia che ogni cosa rende più amabilmente appetibile.

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Ci ha molto interessato e piaciuto, pur intercalato a volte da qualche eccessiva semplificazione, “C’è Nessuno” della compagnia siciliana Mandarakè che in modo intelligente e spesso foriero di nuove sugestioni si occupa del rapporto delle giovani generazioni con internet, i media e i video giochi. Lo fa partendo dal fenomeno dei “Hikikomori”, i ragazzi che si chiudono in casa, rifiutando ogni rapporto con gli esseri umani se non quelli mediati dalla rete : ragazzi che passano tutta la loro giornata davanti al pc, vivendo un completo sovvertimento dello scorrere del tempo e dei rapporti con la “realtà”, che riescono in solitudine a sostituirla con quella virtuale. Gioacchino, Gio, Jakc ( Gioacchino Cappelli che scrive lo spettacolo con Elena Grimaldi) il nostro protagonista, il solo che vediamo dal vivo in scena, è infatti così. Pur stimolato dall'amico Seba, Brown, ad uscire nella vita reale, se ne sta nella sua camera a dialogare con chi sceglie lui di dialogare, non intuendo minimamente di essere in contatto solo con chi dallo schermo gli detta solo regole a cui per altro soggiace con entusiasmo, vivendo in una realtà parallela che nella sua testa è più consona alle sue esigenze. E infatti perchè mai un ragazzo come Gio dovrebbe uscire fuori tra la gente, se ha intuito che la sua generazione non potrà avere un futuro certo colmo di occasioni, se i sogni che aveva da piccolo si sono frantumati nella nostra di realtà, governata da chi del futuro delle nuove generazioni importa poco o niente? Da chi governa un mondo che lo vuole proprio così. Allora meglio quella che Gio si è inventato di realtà, dove con tutti i mezzi che la tecnologia gli offre la realtà la può reinventare a suo piacimento. Ed inutilmente il suo amico Seba, Brown, gli dice che ognuno nella vita reale è collegato agli altri e che qui sta il nodo di tutto: Gio non ci sta, vuole rimanere lì, dove in definitiva vive comodamente, dialogando da lontano con la sua famiglia che sta dietro la porta. Uno spettacolo che non si ferma solo sul rapporto tra i giovani e i nuovi media, ma che cerca di andare oltre, fornendo anche però, pur nella disillusione di un mondo migliore, una speranza: il padre di Gio ( Marcello Cappelli il vero padre dell'attore) alla fine infatti invita il figlio a sperare, a credere che il mondo possa essere diverso, basta crederci e non abbassare mai la testa.

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Una piacevole scoperta è stata per noi vedere all'opera per la prima volta la compagnia svizzera PerpetuoMobileTeatro nella rivisitazione del famoso must di Charles Dickens “ Il racconto di Natale” di cui ricordiamo anche la bella messa in scena di Ca' luogo d'arte. Qui in “ Scrooge - non è mai troppo tardi”, tre attori, Brita Kleindienst, Marco Cupellari e David Labanca con le bellissime maschere caratteriali di Brita Kleindienst e Sara Bocchini, senza proferir parole, se non quelle di raccordo tra i vari momenti dove il teatro di figura vive sovrano, ci immergono nella solitudine dell' Avaro protagonista del racconto che ha sacrificato tutti gli affetti in funzione dell'unico scopo di arricchirsi. Partendo dal funerale del suo defunto socio d’affari Marley che alla vigilia di Natale gli compare davanti, ammonendolo che la sua tirchiieria lo porterà alla solitudine, si dipana la famosa storia che lo vedrà al cospetto dei tre spiriti del tempo che lo faranno riflettere sulla vita grama che conduce e che lo porteranno a cambiare la sua vita per donarsi finalmente agli altri. Tutto è espresso con gusto e raffinata semplicità attraverso un teatro che, pur narrando una storia, preferisce evocare in ogni momento i diversi sentimenti che imbevono la vicenda del banchiere Ebenezer Scrooge e della sua nuova vita.

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Cosa hanno in comune due adolescenti come Cassandra e Anastasia o chi per lei crede di esserlo, che sono vissute a duemila anni di distanza tra loro e dunque forse, ma solo forse, in contesti assolutamente diversi tra loro. Come possono Cassandra, la figlia infelice del re di Troia, indovina, mai creduta che diceva invece la verità e Ivanova Vasileva che credeva di essere, Anastasia, figlia di un altro re, lo zar Alessandro II Romanoff e per questo creduta pazza, parlare in modo profondo ai loro coetanei di oggi ?A “Colpi di scena” ce lo hanno dimostrato efficacemente due spettacoli che utilizzano due forme sceniche assolutamente anomale e differenti : il teatro d’ombre e la Danza, sapientemente accompagnata dalle videoproiezioni.

Cassandra è un’adolescente che come tutti gli adolescenti vive in continuo conflitto con il mondo che la circonda e che non le piace e, intuendone l’approssimarsi della fine, vorrebbe essere solo come gli altri,nascondendosi. Decide allora, consigliata dalla prima moglie del padre Priamo, l'anziana Arisbe, di fare l’unica cosa che può fare: dire agli uomini quello che non vogliono vedere, dire la verità senza essere mai creduta, odiata e irrisa da tutti quelli che le stanno intorno.
Così la Cassandra pensata da Fabrizio Montecchi ed Enrica Carini diventa contemporanea e parla ai suoi coetanei, anche attraverso immagini non certo esaltanti, dicendo loro che per il Nostro Pianeta non c'è più tempo da perdere, dobbiamo muoverci “Perché non vedono il mondo intorno a noi crollare?”, domanda agli adulti. Letizia Bravi e Barbara Eforo, muovendo le sagome di Nicoletta Garioni, trasformano i loro corpi e le loro ombre nella voce inesausta di chi ci invita a fare presto perchè il mondo che conoscevamo sta cambiando,e non in meglio come vorrebbero,come vorremmo.

Nello stesso modo, attraverso le coreografie di Roberta Ferrara di Equilibrio Dinamico e le proiezioni video, create da Raffaele Fiorella e Alessandro Vangi con la Regia di  Michelangelo Campanale de La Luna nel letto, in “Anastasia” l'ultima figlia dello Zar, assistiamo alla caparbia volontà di un'adolescente di crearsi una identità, per mezzo di un sogno che le consenta di uscire da una realtà che la costringe dietro a una finestra. “ La realtà non è sempre necessaria” si domanda in continuazione.
La vediamo in un ospedale, dopo essere stata salvata dalla morte in un canale di Berlino e dopo mesi di mutismo, affermare di essere Anastasia, l’ultima figlia dei Romanov, i reali che furono trucidati dalle milizie bolsceviche, immaginandosi un mondo diverso, un poco come faceva Cassandra. Quante bambine, quante adolescenti hanno in fondo avuto lo stesso desiderio di essere una principessa? E così fa la nostra protagonista.
Serena Angelini, Alberto Chianello, Beatrice Netti, Luca De Santis, Giulia Bertonivoce con la voce narrante di Maria Pascale restituiscono in modo immaginifico a passo di danza sul palcoscenico, complici le bellissime immagini con cui dialogano “ particelle di memoria che diventano leggenda senza tempo, che esplodono nello spazio, ricreando un luogo nel quale Anastasia è intrappolata nella ricerca di sé stessa”. La corte dei Romanov nella sua opulenza,gli affetti familiari, la presenza demoniaca di Rasputin , la possibilità di un amore puro e sincero diventano immagini vive e presenti. “ La realtà non è sempre necessaria” e il Teatro, attraverso uno spettacolo di forte potenza espressiva ce lo suggerisce, facendoci riprovare le stesse suggestioni evocatrici che apparivano al di là della finestra del manicomio, dove Anastasia, ci piace con fermezza chiamarla così, era stata reclusa.

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Dopo il teatro dell'Orsa con il suo storico spettacolo “ Cuori di terra” vincitore tanti anni fa' del Premio Scenario, anche Maurizio Bercini in “ Cide” su testo della fedele Marina Allegri accompagnato da Elisa Sandrini e con le musiche originali di Fulvio Redeghieri, prodotto dal Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti, fa uscire dalla memoria la triste vicenda dei sette fratelli Cervi. I sette fratelli Cervi : Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore, i figli di Alcide Cervi e di Genoeffa Cocconi, prendono vita sul palcoscenico in modo semplice ed immediato, attraverso una specie di commovente ballata tra musica, racconto e teatro di figura, gli strumenti d'arte che hanno sempre accompagnato Maurizio Bercini. Lo spettacolo così ce li rende vivi e presenti, attraverso i ricordi del Padre, confidenzialmente chiamato Cide, ci rende vivi e presenti sette giovani uomini che appartenevano a una famiglia di contadini di forti convincimenti democratici, avversari di un regime autoritario e crudele che, presi prigionieri e torturati, uccise il 28 dicembre 1943 nel poligono di tiro di Reggio Emilia. Lo spettacolo parte in modo originale dai doni che nel corso degli anni sono stati inviati da tutto il mondo a papà Cervi e che in scena Cide / Bercini raccoglie da terra, testimone di una vicenda che non può essere perduta nei meandri della memoria ma che deve essere riconsegnata alle nuove generazioni come monito perchè ciò non accada più. Ed è per questo che Bercini si fa accompagnare musicalmente dalla giovane Elisa Sandrini come se volesse tramandarle la storia che le sta raccontando ed è per questo che ad un certo punto compare il vero Cide a forma di burattino che resterà solo in scena sotto un grande albero, testimone muto ma presente di una ferita lancinante arrecata alla storia del nostro paese e che il teatro ha la forza di rendere universalmente presente.

MARIO BIANCHI


Giacomo, il protagonista dello spettacolo " Sono solo favole" è un uomo razionale e pratico che rifugge l’immaginazione. Da bambino ha sofferto per la presunta mancata attenzione della madre nei suoi confronti, una scrittrice di storie per bambini.
Un giorno, mentre sta svuotando la casa materna per venderla, trova una serie di oggetti che lo riportano alla sua infanzia, ed un computer con un messaggio della madre che lo invita a completare delle favole che lei ha solamente iniziato.
La prima reazione di Giacomo è un rifiuto totale: chiude il computer e lo getta via. In quel momento, attraverso delle videoproiezioni, la casa si trasforma in una prigione: la porta scompare e le finestre diventano piccole, piccole. Giacomo capisce che l’unico modo per uscire da quella situazione, che lo agita, perché irrazionale, è fare appello alla fantasia e finire le storie di Felpa Rossa - Mostro fangoso e il ranocchio - Hansel. Gretel & friends che la madre gli ha regalato.Ora Giacomo ha paura: riuscirà da solo ad utilizzare la fantasia che ha sempre rifiutato? O forse avrà bisogno dell’aiuto delle bambine e dei bambini. Questo è quello che racconta lo spettacolo “Sono solo favole” della compagnia Alchemico Tre.
Molti arrivano al teatro ragazzi per condizione, altri per scelta. E’ il caso di Michele Di Giacomo che con umiltà, pazienza e intelligenza ha concepito un idea di spettacolo teatrale per ragazzi, partendo da loro, in un progetto di coinvolgimento creativo di alcune classi di scuole dell’Emilia Romagna, i cui disegni sono parte integrante di questa creazione e che ad un certo punto compaiono in scena con l’obiettivo dichiarato di trasformare alunne ed alunni in spett-autori.
E così Giacomo intanto riesce a raggiungere il proprio obiettivo sentendosi libero e recuperando il rapporto interrotto con la madre, anche perché lei gli sussurra da lontano “sono sicura che sarà un giuoco da ragazzi, tanto, come dicevi sempre, SONO SOLO FAVOLE”.



Caro Lupo è una fiaba.
Un bosco, una vecchia strana casa, una famiglia, due estrosi genitori ed una bambina con una vivace immaginazione, Jolie con il suo inseparabile orso di pezza Boh.
I genitori occupati a sistemare la casa dopo il recente trasloco, non sempre prestano la dovuta attenzione a Jolie, alle sue domande, ai suoi bisogni.
Così quando Jolie sente uno strano suono e vede un ombra nel bosco, attribuiscono il tutto alla sua fervida fantasia, facendola dubitare e riflettere sul confine sottile tra fantasia e realtà.
Ma quando l’inseparabile Boh scompare, Jolie non ha dubbi, ed essendo coraggiosa, con grande spirito d’iniziativa, decide di ricercarlo.
Così si mette in viaggio nel bosco, un luogo ignoto, dove accanto a paesaggi incantati ci sono ombre e rumori oscuri e la paura di essersi persa per sempre può da un momento all'altro prendere il sopravvento.
A questo punto incontra due simpatici personaggi, Nonno nodo e Nonna Corteccia, due alberi, i cui consigli e ammonimenti dettati dalla saggezza accumulata in tanti anni, le permetteranno di superare la paura, guardandola da vicino riprendendo il viaggio per cercare Boh.
Così incontrerà un suono e un'ombra: un cucciolo di lupo con il quale fa subito amicizia e che gli restituisce Boh. In quel momento sente la voce dei genitori, che accortesi della sua assenza, la stavano cercando. Quasi contemporaneamente si sentono i richiami dei genitori del lupo: forse anche lui curioso e coraggioso si era allontanato troppo per vedere chi fossero gli abitanti di quella vecchia, strana casa.
"Caro lupo" è una fiaba con scene, sagome e puppets, raccontata con grande perizia attraverso la magia della proiezione di ombre e figure animate grazie alla tecnica dell’animazione su nero, in un alternarsi dimensionale di macro e micro.
Lo spettacolo prodotto da Drogheria Rebelot con la regia, drammaturgia e cura dell’animazione di Nadia Milani, raggiunge, attraverso la magia del Teatro di figura, l’obiettivo di aiutare bambine e bambini a guardare da vicino la paura per esorcizzarla immergendoli in un mondo pieno di stupori dove l'inanimato prende miracolosamente vita.
E se le voci dello spettacolo anziché registrate fossero dal vivo?

FABRIZIO GIULIANI

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Un giovane performer che riprende l'antica tradizione, quasi scomparsa, del ventriloquo ne “Il Gran Ventriloquini” della compagnia Madame Rebiné: Max Pederzoli alto, dinoccolato Il Gran ventriloquini.jpgin giallo, a metà strada tra Adrien Brody e Adam Driver, immerso in una pseudo situazione circense. Si sente che sono freschi, che hanno sensibilità ed entusiasmo. E' la classica, ma sempre affascinante storia, degli oggetti che si ribellano al suo creatore, del figlio che deve “uccidere” il padre per staccarsi dal cordone ombelicale e camminare con le proprie gambe. Il tagliare i fili della marionetta, Pinocchio e Frankenstein. Qui il nostro mago discute e litiga con “Klaus il Clown” che se ne sta dentro una botola e non ne vuol sentire di uscire per esibirsi ed anzi entra in sciopero. Intanto il mago, per riempire l'attesa, mitraglia le sue barzellette: “Perché le renne vivono in Antartide? Perché lì c'è la neve perenne”. Altro personaggio che si ribella a colui che gli presta la voce non riconoscendone l'autorità è il calzino a mano, una sorta di serpente con la lisca. Klaus e Calzino si rifiutano di dire le barzellette del ventriloquo considerandole squallide. A bocca chiusa rappa e scretcha, suona la base di Billie Jean, parla fuori sincrono, parla con l'eco. E' la lotta infinita tra l'uomo e gli oggetti inanimati che però un'anima ce l'hanno eccome. Intanto: “Vorrei una camicia” “La taglia?” “No, la porto via intera”. Questo è un piccolo circo di periferia “che cade a pezzi”, le cose si rompono, le luci si spengono, i pannelli cadono, le tende si staccano. Il concetto del padre-padrone non regge più e gli oggetti di lavoro si sono fatti consapevoli e vogliono ottenere la libertà per finalmente formare un trio di artisti con pari dignità. “Cosa ordina un riccio al bar? Una birra alla spina”.

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Dai colori al buio tetro degli Zaches che sono sempre cupi e neri, certo raffinati, fini tecnicamente e formalmente eleganti ma anche molto foschi e scuri, impaurenti, intimorenti. Stavolta affrontano la fiaba di “Cipì” e fin dalla prima bellissima scena, quella della tempesta, si ha la sensazione di uno spettacolo noir con i fogli che svolazzano addosso al Maestro in maniera aggressiva quasi cani alla catena che attaccano. La musica coinvolgente e avvolgente crea una sensazione di pathos e ansia prima di giungere al nodo della storia, il nostro Cipì, uccellino curioso che vuole andare a scoprire il mondo mentre il Nonno-Maestro non vuole lasciarlo libero perché là fuori, dice, è molto pericoloso. Come quei genitori che fanno crescere i figli sotto una campana di vetro. E questa versione è anche molto cruda con l'arrivo dei cacciatori e della falciatrice. Una favola ambientalista alla quale avrebbe giovato un po' di leggerezza, un pizzico di allegria e una lievità maggiore.

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Per primi ci siamo trovati davanti ad “Hermit” (significa “Eremita”) del gruppo Simone De Jong Company, mezz'ora di purezza, trenta minuti da vivere, respirare, capire, assaporare. Tutto si svolge dentro, a fianco, attorno ad un cubo. Facile il primo aggancio semiotico e sentimentale al Cubo di Rubik o, al limite, ai bozzoli di Cocoon; infatti siamo davanti ad un rompicapo, ad un bivio esistenziale, ad un passaggio in perenne contraddizione tra la voglia di stare e quella di scappare, tra il desiderio di abitarlo e quello di cercare la libertà trovandosi di volta in volta insoddisfatti e delusi da una delle due condizioni. Dentro il cubo-bara una lucina ne illumina le pareti e subito ci appaiono i classici segni semicircolari di una ecografia: nasciamo da un luogo claustrofobico ma caldo, costrittivo ma comodo e, durante l'esistenza, ci muoviamo come trottole per ricercare e ritrovare quella sensazione di pace e di benessere. Sembra un lavoro scritto durante la pandemia, o almeno sembra calato in questi nostri tempi dove più che l'andare fisico sembra che ci basti viaggiare sepolti e impigriti dai nostri divani, sprofondati nei letti o nelle poltrone delle scrivanie con l'illusoria convinzione, malsana e ipocrita, che ci vendono i nostri smartphone facendoci credere che tutto sia a portata di click quando sullo schermo la realtà che vediamo è soltanto bidimensionale mancando la profondità, mancando appunto noi dentro quel panorama. Il nostro protagonista (sembra un astronauta nella sua navicella, sembra un giapponese nel suo loculo) se ne sta rannicchiato dentro, compresso, è come impaurito; ai tanti campanelli che installa all'esterno delle pareti protettive del suo guscio, sonagli che evidentemente dovrebbero logicamente servire per essere trovato, risponde perennemente con “Non sono in casa” non volendo entrare in nessuna relazione con gli altri, affetto da una forma di patologica misantropia accelerata all'ennesima potenza. Quando la sua voglia di uscire si fa esondante e finalmente riesce a prendere coraggio per esplorare gli intorni del suo spazio e prendere consapevolezza del proprio corpo al di là dei confini imposti dalla sua pelle, esce dall'oblò e comincia una furiosa e forsennata corsa felice e liberatoria e di risate a bocca piena, gambe in spalle che sanno di gioia e soprattutto libertà. Ma, come si dice, se non puoi uscire dal tuo tunnel allora arredalo. Una volta resosi conto della presenza di tanti sconosciuti, di molti occhi a fissarlo, la paura e il timore del contatto (forse del contagio) lo assale ferocemente facendolo ritirare dentro la sua sicurezza e fortezza. Con il lockdown è cambiata radicalmente l'idea di casa; adesso l'abitazione è una propaggine di sé, come la chitarra per Jimi Hendrix, ci deve assomigliare perché lì dentro ci passiamo, ci passeremo molto tempo. E la riflessione prende una piega drammatica: se possiamo stare tranquillamente in casa e lì lavorare non abbiamo più bisogno di uscire per raggiungere il posto di lavoro, non ho più bisogno del cinema perché ho Netflix e Prime Amazon, non ho bisogno di andare a fare la spesa perché me la porta direttamente un deliveroo, non ho più bisogno di relazioni perché parlo con Alexa, posso chattare con sconosciuti e tutto risulta essere anche più asettico e pulito. Quando non vado d'accordo con qualcuno posso bannarlo o bloccarlo e cancellarlo così che il problema viene estirpato alla radice. La paura dell'altro ci fa rinchiudere nel nostro guscio di chiocciola, come un paguro nella conchiglia, come una tartaruga all'interno del carapace. Questo chiudersi al mondo, illudendosi di lasciare fuori di casa i problemi, crea nuovi hikikomori: il futuro è grigio, bisogna per questo aprire le finestre per cambiare l'aria e respirare a pieni polmoni. Gli altri non sono un problema,

TOMMASO CHIMENTI DA " RECEN/SITO"



Mai fu la nostra vita così piena
di incontri, di arrivederci, di transiti
come quando ci accadeva soltanto
ciò che accade a una cosa o a un animale:
vivevamo la loro come una sorte umana
ed eravamo fino all’orlo colmi di figure.


Rainer Maria Rilke, Infanzia
in Poesie. 1907-1926 (Einaudi, 2014), a cura di Andrea Lavagetto

Il frammento di Rilke posto in esergo a queste poche righe pare appropriato a introdurre qualche pensiero in merito a "I sognatori", spettacolo di teatro danza tout public a partire dai 6 anni di Manuela Capece e Davide Doro, prodotto da Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti e interpretato da Erica Meucci, Giuseppe Claudio Insalaco e Piergiogio Gallicani, visto al Teatro Diego Fabbri di Forlì il 28 giugno 2022 nell’ambito della Biennale di Teatro Contemporaneo per le giovani generazioni Colpi di Scena, curata e organizzata da Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione.
Appropriato, si diceva, innanzi tutto perché evoca due elementi che immediatamente emergono dallo spettacolo: la malinconia, che nell’etimologia vale forse ricordarlo rimanda alla bile nera e, per apparente paradosso, la ridda di immagini e lievi colori che da questo nero, o fondo scuro, emergono.
Ed è proprio in un fondo scuro, sferzato dal vento e dalla nebbia, che le tre vaganti Figure iniziano a darsi al nostro sguardo. Come non pensare ad Amarcord, “Mo se la morte è così… non è mica un bel lavoro” e a Federico Fellini, a cui lo spettacolo è esplicitamente dedicato (potere degli anniversari).
Il brancolare diventa danza, i tre d’improvviso si uniscono (a proposito di Fellini, consigliamo a tutti di leggere o rileggere il commovente finale del racconto Il viaggio di Tonino Guerra in cui i due anziani sposi Rico e la Zaira, dopo aver tanto camminato per andare a vedere il mare che a ottant’anni non avevano ancora mai visto, pur abitando a pochi chilometri di distanza, finalmente vi giungono… ma c’è una gran nebbia che copre tutto e loro vi si perdono in mezzo e iniziano a vagare mulinando le braccia… poi si toccano per caso e si abbracciano “come due che si ritrovano dopo trent’anni di America”: struggente e sublime).
L’inizio dello spettacolo è dunque affatto evocativo, coraggioso nell’offrire ai bambini un procedere indefinito, sospeso, non univoco e, dunque, non a tutti i costi rassicurante.
L’apparente vagare delle Figure nello spazio vuoto è creaturale: da esso, grazie a una scrittura coreografica immaginifica ed esatta, affiorano immagini (esempio: il falò attorno a cui i tre si scaldano), dando corpo e visione a quel pensiero magico che nell’infanzia trova scaturigine e massima espressione.
Un altro aspetto coraggioso de I sognatori è il procedere per paradossi. “Dovete guardare per davvero: su, chiudete gli occhi”: parole che potrebbero esser pronunciate da Antonio Catalano, o da Gianni Rodari, segno di un’idea larga di infanzia, e di arte, che certo fa bene a chi la vive e a chi se ne occupa.
I sognatori, in tal senso, dà corpo a una prospettiva letteralmente poetica che comprende le dimensioni della creazione e dell’approssimarsi al mistero.
A proposito di poesia, e di dinamiche sceniche: questo spettacolo che, almeno nella prima parte, pone al centro del fatto performativo il ritmo e la forma, è un accadimento metrico accompagnato in trasparenza da musiche evocative, per nulla bambinesche, che dialogano a tratti con andamenti lievi, sospesi, interposti a esplosioni cinetiche che quasi lasciano tracce percepibili nello spazio (come non pensare alle monocromie del meno ostico fra i mitici Azionisti viennesi, Arnulf Rainer)?
Tre elementi, per contro, ci hanno lasciati perplessi. In questo caso ci pare rispettoso dell’indubbia professionalità dei molti soggetti in campo esplicitarli, ancorché schematicamente:
il tono reiteratamente esortativo del testo sfiora a più riprese il rischio predicatorio, per di più a volte con modalità retoriche ed enfatiche affatto marcate (un esempio fra vari: “liberate le vostre emozioni”);
alcuni elementi bambineschi sembrano stridere con la visione più ampia di infanzia a cui si è accennato: la recitazione spesso iper-entusiasta, i nomi scelti per le tre Figure (Cico, Pallina e Gigante), l’ineludibile necessità dell’happy end (che porta a una moltiplicazioni di finali non spiegabile altrimenti);
il carosello di veloci uscite con i diversi costumi da dietro un fondale nella seconda parte, pur costituendo una decisa ed efficace variazione ritmica non è chiaro, almeno per noi, quale coerenza abbia con il discorso linguistico (e non solo drammaturgico) complessivo.
Aspettiamo con gioia di incontrare altre creazioni di questi artisti, per meglio conoscere il loro mondo creativo.

MICHELE PASCARELLA DA "Gagarin"