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Eolo
recensioni
UNA GIORNATA A LIVORNO PER IL FESTIVAL ''CON-FUSIONE''
DALLA NOSTRA INVIATA MATILDE MARRAS

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VI RACCONTIAMO UN GIORNO DI DIBATTITI, PROGETTI E SPETTACOLI ATTRAVERSO L'OCCHIO "INCONTAMINATO" DI MATILDE MARRAS DIPLOMATA AL CORSO DI DRAMMATURGIA DELLA PAOLO GRASSI DI MILANO.

Con-Fusione, il Festival a cura della compagnia Orto degli Ananassi/Teatro della Brigata giunto alla sua terza edizione, si è tenuto a Livorno dal 29 Luglio all’11 Settembre. Numerosi gli appuntamenti: Stilema Teatro, Roberto Abbiati, Unterwasser, Circo Medera e Les Sangles sono solo alcuni degli interessanti ospiti. Noi abbiamo partecipato all’intera giornata del 9 Settembre, che è quella che proviamo a raccontarvi.

Eolo arriva alle 9.30 nella splendida location della Fortezza Nuova e con lui, letteralmente, quasi drammaturgicamente, anche il vento; costanti raffiche accompagnano le parole degli ospiti presenti alla conferenza del mattino e mi viene spontaneo chiedermi, fra un discorso e l’altro, se questo vento porterà con sé il cambiamento, invocato da molti, nel settore del Teatro Ragazzi. Chissà. Io comunque mi sento subito a casa, un po’ per la gentilezza e lo sguardo appassionato che colgo negli occhi di tutti, un po’ perché da noi a Cagliari allo scirocco ci siamo abituati.

L’incontro, voluto dalla Compagnia Pilar Ternera e Orto degli Ananassi, viene aperto da Andrea Gambuzza e Ilaria Di Luca, direttore e direttrice del Festival. Entrambi mettono subito in chiaro il loro intento di creare comunità; tema, questo, che tornerà più volte nelle parole degli ospiti e che, a giudicare da come le ragazze del progetto Artificio - di cui si parlerà più avanti - sorridono ad Andrea e a Ilaria, ci sembra ampiamente riuscito. Il teatro per l’infanzia, dicono i direttori insieme a Francesco Cortoni (direttore Artistico di Pilar Ternera), è uno strumento prezioso per trasformare la società, perché i bambini sono gli adulti di domani: ma cosa possiamo fare di più?
Prova a rispondere per prima Cristina Giachi, Presidente della Commissione Cultura del Consiglio Regionale della Toscana, che mette in evidenza subito un argomento che fa annuire molte delle teste presenti: è necessario un cambio di prospettiva, che permetta di cominciare a vedere la spesa per la cultura non più come un costo, ma come un investimento. A ribattere è Simone Lenzi, Assessore alla Cultura di Livorno, parlando delle specificità della sua città che definisce “di frontiera” e sostenendo la necessità di entrare in un’ottica di ascolto maggiore fra Comune e Regione. Non abbiamo ancora capito come si possa instaurare l’ottica di ascolto andandosene via pochi minuti dopo il proprio intervento, ma questa è un’altra storia.

Patrizia Coletta, Direttrice di Fondazione Toscana Spettacolo, racconta della ricchissima attività della sua regione che, insieme all’Emilia Romagna, occupa i primi posti in Italia nella produzione del Teatro per le nuove generazioni. Eppure, ancora troppo spesso, si cade nell’equivoco del volontariato culturale, nonostante sia palese che per raccontare storie ai bambini ci vogliano studio e competenze di alto livello: allora, forse, si dovrebbe investire sulla formazione ancor prima che sulla produzione. Concorda con lei Vania Pucci, codirettrice artistica di Giallomare e Minimal Teatro, e aggiunge che per favorire il ricambio generazionale va riconosciuta la professionalità del nostro lavoro, che molto spesso è più di uno (in questo momento una delle mie personalità, quella convinta di voler fare solo la drammaturga, annuisce molto forte, e con lei anche la formatrice, la tecnica delle luci, l’organizzatrice, la maschera, l’ex attrice, la dramaturg e naturalmente anche l’aspirante critica, che sta scrivendo ora), eppure sembrano mancare tutte quelle prerogative che noi stessi proponiamo come primi esercizi ai laboratori teatrali: ascolto, fiducia, relazione.

Anche per Linda Eroli, presidentessa di Assitej Italia, investire sulla formazione è un obbligo: uno dei modi può essere quello di favorire lo scambio internazionale, affrontandone tutta la complessità, ché tanto si sa che senza di questa non si va da nessuna parte. Il loro progetto In-Forma, uno dei tanti, mi sembra abbracciare molto bene questo intento. Stefano Romboli, garante dei diritti dell’Infanzia e dell'Adolescenza del Comune di Livorno, apre un altro grande tema: come facciamo a non adattarci al fatto di non essere riusciti a coinvolgere una fetta importante di popolazione? Mi faccio la stessa domanda e probabilmente ce la facciamo un po’ tutti, consapevoli che probabilmente anche questa conferenza, nonostante tutta la sua urgenza e bellezza, rischia forse di diventare la copia del Teatro in Italia oggi: una chiacchierata intellettuale fra addetti ai lavori.



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Prendono poi la parola Cira Santoro, responsabile del settore Teatro Ragazzi in ATER Emilia Romagna, e Silvano Antonelli, direttore artistico di Stilema Teatro, che ci raccontano come spesso basti smettere di provare a convincere il pubblico ad andare a teatro, e si debba invece spostare il Teatro e portarlo in giro dal pubblico. Un po’ la versione colta del proverbio di Maometto e la montagna. Ci parlano così del loro progetto Lo Sciroppo di Teatro, la cui semplicità e concretezza stupiscono e commuovono: si parte da una domanda, molto comune post Pandemia: come facciamo a riempire di nuovo i teatri? Come si concilia questa situazione sanitaria con la necessità di continuare a fare arte? Semplice: cominciando a concepire l’idea di salute non solo come cura, ma anche come prevenzione. E allora, il gioco è fatto: chiediamo ai pediatri di prescrivere il teatro ai bambini! Così è stato, e dalle 24 repliche dell’anno precedente si è arrivati a 77 e a Gennaio 2022 i teatri dell’Emilia Romagna, a differenza di quasi tutti quelli del resto d’Italia, erano pieni. Quest’anno le repliche previste sono 99. Funzionava che le farmacie diventavano felicemente promotrici di questa iniziativa e che i pediatri consegnavano ai bimbi una speciale ricetta corredata, oltre che del nome del bambino in questione, di un bugiardino con tutti i numerosi benefici che il teatro avrebbe potuto procurare. I biglietti erano due - per il bambino e per una persona accompagnatrice - e il costo per ognuno di due euro. Ed ecco il grande tema: quest’anno Cira e Silvano hanno trovato molti finanziatori privati, ma in generale, come si fa a sostenere economicamente progetti così belli? Io trovo incoraggiante che si cominci a mettere in discussione il concetto di Welfare e di assunzione di responsabilità, come a suggerire che la Sanità forse potrebbe cominciare a farsi carico della prevenzione in senso più ampio; e trovo poetico il fatto che sia nata una collaborazione di questo tipo e che i pediatri stessi abbiano introdotto il concetto di bambino tutto intero, un bambino, cioè, che va curato anche nelle emozioni oltre che nel corpo.

Parla di emozioni anche Alessio Pizzech, direttore artistico del Teatro Eduardo de Filippo di Cecina: c’è bisogno di tornare a vedere il teatro come il luogo dell’ascolto e della visione, e non dell’essere protagonisti. Il teatro, dice, con la sua enorme funzione politica, è un allenamento (per i bambini, ma anche per gli insegnanti che si occupano dei dibattiti dopo i matinée delle scuole) per cogliere la bellezza nella quotidianità, e non dietro il sipario. E allora, come giustamente suggerisce Cristina Giachi, bisogna avere l’umiltà di rimettersi a spiegare alle persone il valore del teatro e della nostra professione per cui, molto spesso, non esistono neanche le parole: facciamo lavori che non hanno un nome, eppure rimaniamo convinti che tutti dovrebbero sapere a prescindere l’importanza del nostro mestiere. Ma come si fa a capire una cosa che nemmeno si chiama? Forse, allora, davvero c’è bisogno di andare in giro per le città e trovare parole nuove per le cose belle, far incontrare le lettere, far danzare le virgole, far scontrare i significati, proprio come fanno i bambini.




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PROGETTI E SPETTACOLI

ARTIFICIO

Artificio è il  progetto nato dalla collaborazione fra i direttori del Festival e Silvano Antonelli, con l’esigenza di creare comunità tra le nuove generazioni e accompagnarle nella ricerca di un proprio linguaggio. Il pomeriggio, quindi, prosegue con la visione dei tre lavori (selezionati tra una ventina di soggetti che avevano risposto alla call) e che, ci tengono a dirlo, non sono degli spettacoli conclusi e nemmeno delle ipotesi, ma degli indizi, dei semini. Le ragazze, tutte donne, sembrano molto affiatate fra loro e sicuramente non esiste traccia di competizione. Silvano ha fatto da guida, ha visto questi progetti trasformarsi radicalmente durante la residenza e, come dice lui, ha scelto di non mettersi né davanti a loro come chi vuole suggerire tutte le risposte, né di spalle come un guru, ma al loro fianco. L’intento mi sembra molto riuscito e anzi credo che, per i prossimi anni, si dovrebbe investire ancora di più sulle potenzialità di formazione che questo progetto ha e che, invece, fuori dalle Accademie tende a scarseggiare, soprattutto nell’ambito del Teatro Ragazzi. L’ultima riflessione riguarda proprio il destinatario di questi lavori: stupisce come, in un pubblico quasi interamente di adulti, l’attenzione sia massima. Rincuora vedere che si ha ancora voglia di parlare ai bambini senza scimmiottarli né proteggerli, ma trattando temi degni della loro acutezza e spesso anche molto dolorosi.

Il Gran Circò dell’Animà è il primo dei “semini” che vediamo, della Compagnia Officina Commedia con Angela Dionisia Severino e Paola Maria Cacace, un lavoro che prende spunto dalla commedia dell’arte e dalle maschere napoletane per raccontare la decadenza del teatro: in una sorta di climax al contrario, un buffissimo Circo dovrà fare i conti con la sua pomposità e iper-produttività, nel momento in cui si accorgerà di non avere più niente: né le zebre, né gli elefanti, né i personaggi illustri del pubblico. Qualcosa, però, è rimasto: noi, le persone che li stanno guardando e che, nonostante tutto, sono ancora qui.

Trame tra miniere, di Benedetta Pigoni, racconta con coraggio e dolcezza la favola di un filo rosso che unisce una storia in Italia con una storia in Belgio e, forse, anche tutte le storie del mondo. Il racconto è quello di una donna, la nonna dell’attrice, rimasta ad aspettare il suo futuro sposo, partito a lavorare in miniera per mettere da parte i soldi per il matrimonio. Convince soprattutto il paragone fra le lettere dell’amato e quelle che un qualsiasi migrante, oggi, scriverebbe alla sua famiglia, evitando di raccontare la sofferenza.

Due è l’ultimo dei lavori che vediamo ed è il racconto, attraverso il linguaggio del teatro danza, della nascita di due persone e della scoperta graduale del loro corpo. Quante cose si possono fare con due attrici e un telo bianco, viene da dire guardandole, e quanto bisogno c’è di raccontare storie ai bambini con la danza. Come anche per le altre restituzioni, anche questa volta segue un breve dibattito, prezioso se visto in un’ottica di formazione, ma pericoloso se si mischia con lo sguardo di chi già pensa alla produzione. A salvarci dai giudizi e dai ragionamenti altisonanti sono, anche questa volta, i bambini, perché chiediamo a una delle poche presenti in sala cosa le è piaciuto di quello che ha visto. Lei, con semplicità, ci risponde: “Che quando una è nata non vedeva l’ora di far vedere all’altra cosa aveva scoperto”.

A CACCIA DI MOSTRI

La serata si conclude con lo spettacolo di Federico Raffaelli A caccia di Mostri, prodotto dalla Compagnia Pilar Ternera e vincitore del bando per proposte culturali e creative di valorizzazione dell’identità della Toscana. Federico Raffaelli, interprete, viene accompagnato dal vivo dal musicista Giorgio Mannucci, e insieme i due creano un interessante esperimento di teatro d’attore con musica dal vivo. La Toscana è la protagonista: la storia è quella di un gruppo di amici che intraprenderanno un viaggio per affrontare le loro paure, incontrando un sacco di quei mostri che fanno parte dei miti e fiabe della regione. Non convincono del tutto le proiezioni, che sembrano stonare vicino a dei racconti così antichi e per cui, forse, basterebbe la forza della parola. In generale, nonostante la bella idea di ambientare la storia ai nostri giorni, si sente un po’ la mancanza di quella semplicità, genuinità e comprensibilità di cui le fiabe toscane sono ricche. Riuscitissimo, invece, il linguaggio dei personaggi, ricco di inflessioni dialettali che fanno ridere i bambini come i genitori. Il messaggio finale, esposto a un pubblico che batte le mani a tempo della musica di Giorgio, è che l’amicizia sia l’antidoto migliore alla paura. E dopo una giornata come questa, ricca di relazioni, connessioni e nuove comunità appena create, ci sembra la chiusura più adatta.

MATILDE MARRAS



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