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Eolo
recensioni
CONTEMPORANEO FUTURO A ROMA 6/9 OTTOBRE 2022
DALLA NOSTRA INVIATA MARIA GENOVESE

Quando si diventa spettatrice e spettatori? E quando iniziamo a fidarci del nostro sguardo?
La mia prima volta da spettatrice me la ricordo bene.
Avrò avuto più o meno otto anni. In paese era arrivato qualcosa di simile a un circo.
Durante lo spettacolo un mago ci chiese di prendere parte a un gioco, quello classico delle mani che si incrociano in attesa di essere liberate da parole magiche e potenti.
Ricordo perfettamente la sensazione di stupore che passando dagli occhi arrivava in tutto il corpo.
Le mie mani sopra la fronte, bloccate, incapaci di muoversi, diventate improvvisamente estranee, in uno spazio mai visto prima, con tante persone che come me restavano in un tempo sospeso.
Quello che stava accadendo era vero? Era magico il tendone da circo o era magico il mago? Davvero le nostre mani erano incapaci di muoversi? E se fossi rimasta bloccata per sempre? Se fossimo rimasti insieme bloccati per sempre? Chi stava pensando le stesse cose?
Alla fine il mago parlò e le mani ritornarono le nostre mani.
Questo è il ricordo che si fa avanti mentre le voci di bambine e bambini mi accolgono durante la seconda edizione del festival Contemporaneo Futuro, dedicato alle nuove generazioni, ideato e curato da Fabrizio Pallara e che ha visto coinvolti Teatro India e Teatro Torlonia dal 6 al 9 ottobre 2022.
Un festival che come mi dice il suo curatore vuole essere luogo dove farsi delle domande attraverso l’arte del teatro in tutte le sue manifestazioni possibili, che sappia accogliere complessità e nuovi linguaggi con la dignità che meritano, rivolto alle nuove generazioni e a tutto quello che queste si portano dietro, compreso genitori e operatori. Questo è uno dei motivi che porta lo stesso Fabrizio Pallara a scegliere e condividere un progetto artistico e non un singolo spettacolo.
E proprio insieme a genitori ed operatori mi ritrovo in attesa di "Prometeo", da Olympus Kids, un progetto di Agrupación Señor Serrano che prevede la sola presenza di bambine e bambini dai 6 ai 12 anni.
Mentre attendono, gli adulti potranno leggere un dossier pedagogico preparato dalla compagnia per capire e scoprire con modalità e strumenti diversi, l’esperienza autonoma delle bambine e dei bambini.
Già prima di entrare in sala avviene qualcosa di straordinario per chi osserva. Gli adulti hanno bisogno di essere rassicurati. Sono arrivati qui consapevoli di un’esperienza da condividere solo in parte ma ora davanti alla sala sembrano un po’ disorientati. Mi rendo conto del grande privilegio che ho nel poter condividere con bambine, bambini ed operatori, questa esperienza di visione.
La performer Beatrice Baruffini ci accoglie e ci saluta e poi elenca le regole tipiche del teatro: non si mangia, non si beve, non si fa rumore, si resta seduti nei propri posti. Il teatro si merita il silenzio. In alcuni momenti farà delle domande che avranno bisogno di risposte corte e di gesti condivisi, in altri di risposte più lunghe che si potranno dare alzando la mano. Sara è la responsabile di sala e che per qualsiasi cosa ci si può rivolgere a lei, anche per andare via in qualsiasi momento. Prima di portarci nel mondo dei miti la nostra portatrice di storie, chiede a spettatori e spettatrici se sono disposti ad accettare le regole. E ora si può cominciare.
Prometeo, una storia di 2500 anni raccontata sempre in forma orale prima di essere messa su carta da Eschilo.
Prometeo, un dio greco che come gli altri dei era immortale e aveva il super potere di prevedere il futuro. Prometeo, che abitava sul monte Olimpo, dove, in un grande palazzo viveva anche Zeus, il dio più potente di tutti, simboleggiato dal fulmine, da un’aquila sua fedele compagna, dal fuoco di cui era unico padrone.
Qui inizia tutto . In una sala del Teatro India, Zeus ha appena creato il mondo.
Beatrice Baruffini ci porta dentro la mitologia greca servendosi di parole, suoni, immagini, video e modellini realizzati da Lola Belles, con la musica di Roger Costa Vendrell e la fotografia di Leafhopper project.
La narrazione è sorprendente. Ci guida verso la scoperta come se fossimo i primi esseri umani ad ascoltare questa storia. Ma il dio più grande di tutti ha creato un mondo vuoto e ora deve chiedere aiuto agli altri dei come Prometeo per poterlo riempire.
Ma prima sono le bambine e i bambini sollecitati dalle domande a raccontare la loro idea di mondo.
Nelle loro risposte prive di ego, non sono previsti gli esseri umani. Il mondo è fatto di alberi, di un pollo, di un gatto e del mare. Siamo davvero i primi esseri umani ad ascoltare questa storia.
A questo punto Prometeo ha creato tutti gli uomini e le donne partendo dal fango che ricopre la terra e per far progredire le sue creature decide di regalare loro il fuoco.
Ora si può cucinare, ci si può scaldare, illuminare e si possono fare i marshmallow al fuoco dice una bambina dalla sala. Ma quel fuoco che tanto migliora la vita delle creature Prometeo l’ha rubato a Zeus.
Qui la narrazione della Baruffini fa un salto nella contemporaneità e il nostro Prometeo, si sovrappone ad un’immagine di Julian Assange che avrà un posto importante in questa storia.
Le cose si complicano e c’è bisogno del consenso della sala per poter andare avanti ad evocare l’immagine del fegato di Prometeo dilaniato dall’aquila di Zeus, di ferite che guariscono tutti i giorni per poter ridiventare vive la notte, in un tempo che diventa eterno e che chiude la storia.
A cosa serve mettere delle regole se poi si possono infrangere per aiutare qualcuno?
Ha fatto bene Prometeo a rubare il fuoco per darlo alle sue creature?
Ha fatto bene Zeus a punirlo?


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Sono di nuovo le voci della sala, diverse e intelligenti, a mettersi in dialogo con queste domande e ad accompagnarci verso un’altra versione completamente ribaltata del mito: quella di Frankenstein, il moderno Prometo, scritta da Mary Shelley.
Nessun dio questa volta ma uno scienziato che si domanda continuamente qual è l’energia che tiene in vita tutto quello che si muove.
Il romanzo della Shelley diventa vivo attraverso immagini cinematografiche iconiche ed ironiche proiettate in video. Tra esperimenti, laboratori, pezzi di corpi rubati alla terra, ritroviamo quel fuoco appartenente a Zeus che qui, scopriamo, può essere tanto pericoloso fino a distruggere tutto. E ancora Julian Assange, un uomo che come Prometeo e come il dottor Frankenstein ha infranto delle regole.
Assange non ha rubato il fuoco per migliorare la vita degli esseri umani, non ha rubato pezzi di morti per ricreare la vita, ma ha rubato dei segreti ad uomini molto potenti per rivelarli all’umanità. Ma quest’ultima versione in cui Assange diventa un moderno Prometeo dovranno essere le persone adulte a raccontarla rispondendo alla domanda “chi è Julian Assange” che le bambine e i bambini sono invitati a fare dopo lo spettacolo.
E allora queste regole si possono infrangere o no?
Se da lontano arrivasse qualcuno nel nostro paese e infrangesse regole che ancora non conosce lo dovremmo punire?
Siamo noi a decidere come usare le cose, cosa fare dei nostri corpi, se aiutare o no qualcuno.
Si chiama libero arbitrio. Lo stesso che Prometeo concede agli esseri umani regalando loro il fuoco ma non spiegando come può essere usato.
I miti raccontano chi siamo ponendoci domande continuamente. Le risposte non sono mai definitive.
Sono legittime le domande rivolte dalla Baruffini alla sala?
Siamo ospiti di un festival che è fatto di un prima, di un dopo e di un altrove rispetto alla scena e mi tornano in mente le parole di Marco Ferro di Riserva Canini (durante l’incontro Il sogno creatore), che nel raccontare il percorso che condivide con Valeria Sacco, fatto di un processo di indagine ed elaborazione relativi alla scrittura della trilogia di spettacoli dedicati al mistero, fa riferimento a Franco Lorenzoni quando parla di domande legittime o illegittime rivolte alle bambine e ai bambini. Legittima è quella domanda di cui non si sa la risposta. Illegittima la domanda che si formula solo per controllare se chi è interrogato sa dire quello che sai già. Il mondo è pieno di mistero e fare domande legittime ai ragazzi e alle ragazze rispetto a temi come il sogno, il vuoto, le origini dell’universo, aiutarli a costruire una loro narrazione, ci fa diventare spettatori e non protagonisti. Restituisce il senso del teatro per le nuove generazioni, che lontano dalle dinamiche di mercato che pure sono quasi inesistenti, diventa importante solo quando è davvero necessario.
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Dai miti passiamo alle fiabe. Anzi entriamo nel museo della fiaba, "Once upon a time" dove ad accoglierci c’è la scienziata, professoressa Gallina Cicova, giramondo e raccoglitrice di reperti particolari con i quali arricchisce il suo museo. Gli oggetti sono quelli delle storie che si ripresentano immediatamente nella nostra memoria appena incontriamo scarpe da strega, mela avvelenata, sassolini per non perdersi nel bosco e tanto altro. Oggetti che una bravissima Emanuela Dall’Aglio, con la complicità di Veronica Pastorino e in collaborazione con l’associazione Micro Macro, fa parlare in continuazione vestendo i panni della già citata professoressa che prende scientificamente sul serio il proprio lavoro.
Il mondo qui non ha distinzioni, è fatto per tutti a prescindere dall’età.
Toccare le fiabe. Non ci avevo mai pensato. Sovrasto tutte le voci che appartengono ad occhi pieni di meraviglia, con il mio “Io!” E così in un secondo il mio piede entra a pieno titolo in una storia che conosco a memoria mentre indosso la scarpa della sorellastra di Cenerentola.
Mi dimentico della bambina che sono appena stata e casco nella banalità del mio essere adulta con una domanda che cerca risposte rassicuranti da Emanuela Dall’Aglio, quando provo a capire se si sente investita da responsabilità particolari nei confronti di bambine e bambini, nel fare quello che fa.
“Le fiabe sono archetipi, ma sono anime, sono storie, sono racconti delle nonne, sono magia, un mondo fatto di piacere. Un cattivo in una fiaba è un cattivo e non è colpa sua” Ma cosa si può o non si può raccontare a un pubblico così giovane?


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Sicuramente Giacomo Occhi con "Scoppiati" sa bene come farci entrare nella vita dei suoi palloncini e raccontarci la solitudine di alcuni gesti quotidiani, la vita che sembra perdere aria, gli incontri d’amore, la morte, la ri-nascita.
Ma se la morte ci arriva attraverso qualcosa da immaginare mentre un palloncino scoppia, le lacrime piene di voce che arrivano dalla sala sono percepibili e quasi musicali quando si uniscono a quelle di qualche persona adulta che non ha paura di lasciarsi andare alla commozione.
E’ l’epifania delle cose minute, di oggetti che diventano corpi poetici in uno spazio che non è più quello di un teatro ma è il tempo di ognuno di noi, giocato senza parole, fatto di ritmo, di ironia, di suono, di amore.
Un tempo in cui Giacomo Occhi, diretto da Beatrice Baruffini e accompagnato dalle musiche e dal suono di Andrea Ferrario, giganteggia nella sua magistrale sottrazione rispetto alla scena mentre muove e da vita a piccolissimi pezzi di quotidiano che restano sempre i protagonisti della storia. Restiamo sempre noi.
Qualche giorno dopo nel raccontare con tanto entusiasmo questi due spettacoli visti al festival, un amico mi chiede “non restano traumatizzati i bambini nel vedere in teatro storie così?”
Del perché siamo preoccupati da sguardi traumatizzati da quello che accade in teatro e non da quello che accade fuori dal teatro, resta un grande mistero.
Come resta avvolto da un grande mistero l’atteggiamento di una madre che nel sentire le varie versioni di Prometeo raccontate dalla sua bambina appena uscita dalla sala, continua a chiedere in modo molto insistente “Sei sicura di aver visto questo? Ne sei proprio certa?”
Ma forse io ho l’arroganza di chi va a teatro e pensa di avere in mano un alfabeto speciale per leggere il mondo. E se questo fosse vero, come si portano fuori dal teatro le lettere di questo alfabeto?
La risposta mi arriva ripensando a "Guardami", uno degli incontri curati da Roberta Ortolano per Teatro e Altrove, spazio voluto dal festival per dialogare intorno ad alcuni temi.
La suggestione dalla quale si parte è Bell Hooks, Uno sguardo oppositivo: La spettatrice nera, in Elogio del margine, Scrivere al buio, Maria Nadotti, Tamu 2020. Il ragionamento e il confronto su cosa vuol dire guardare è molto interessante, coinvolge artisti ed operatori, fa nascere nuove domande. Davvero lo sguardo può cambiare la realtà? Lo si può sottrarre alla passività anche nelle peggiori condizioni di subordinazione? Il diritto di guardare, il potere dello sguardo, la paura del giudizio, la timidezza che imbarazza e fa abbassare gli occhi durante uno spettacolo, l’orizzontalità che ci pone sullo stesso livello.
Quello che mi colpisce però e mi apre ad una nuova prospettiva rispetto al teatro per le nuove generazioni, è la presenza di una bambina di dieci anni che prende parte a questa specie di tavola rotonda esprimendo il suo pensiero, esercitando il suo sguardo, utilizzando parole capaci di dialogare con l’eloquio a volte complesso e stratificato che arriva dal mondo adulto. E quando si passa a " Connessioni" di Kae Tempest, nella traduzione di Riccardo Duranti per Edizioni e/o 2022, questa bambina comprende appieno la chiave empatica presente nella lettura e prende parola per sottolineare che gli spettatori reagivano “all’unisono, con il battito che accelerava o rallentava allo stesso ritmo…Assistere ad uno spettacolo dal vivo è risultato essere un’esperienza straordinaria, tanto da superare le differenze del gruppo e produrre una reazione fisiologica comune nei membri del pubblico”
Se sotto la superficie siamo tutti collegati, il teatro per le nuove generazioni ha bisogno di rendere più presente il suo pubblico: durante gli spettacoli, attraverso i laboratori ma anche creando spazi di confronto dove bambini e bambine, ragazzi e ragazze possano essere protagonisti di un dialogo capace di fornici risposte che il solo mondo adulto non ha ancora pensato e che possano incidere sulla realtà che incontriamo fuori dal teatro. Continuare a porci e a porre domande legittime. Provare a costruire un alfabeto diverso e più comprensibile anche a chi non frequenta il teatro.
Mentre scrivo con un estremo ritardo questo articolo e sono alle prese con un nuovo trasloco, penso a come quello che ho visto durante il festival stride con la mia dimensione di essere umano che vive in una contemporaneità decisamente complessa. Una statistica fa riferimento ai minori stranieri non accompagnati. Mi domando se qualcuno infrangerà delle regole per aiutarli, se i loro sguardi potranno essere esercitati in libertà, se a loro qualcuno rivolgerà mai una domanda, se entreranno prima o poi in un teatro per un festival a loro dedicato. Un ministro parla dell’umiliazione come strumento di crescita. Anche lui avrebbe bisogno di essere uno spettatore che sente come un battito accellera o rallenta allo stesso ritmo e di fare domande su cose che non sa. Magari a quel bambino che in un laboratorio fatto da Riserva Canini, ha risposto che la cosa più piccola del mondo alla quale riesce a pensare è l’occhio di una pulce.
MARIA GENOVESE










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