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Eolo
recensioni
LA PRIMA PARTE DEL REPORT DEL FESTIVAL SEGNALI
CON MARIO BIANCHI IN COLLABORAZIONE CON ROSSELLA MARCHI, NICOLETTA CARDONE JOHNSON E MATILDE MARRAS

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Eccoci ad introdurre i nostri fedeli lettori al Festival milanese “Segnali”, giunto alla sua trentatreesima edizione, organizzato a Milano dal Teatro del Buratto e da Elsinor con la direzione di Renata Coluccini e Giuditta Mingucci. Il Teatro Munari e il Fontana hanno accolto un Festival eterogeneo nelle forme, nei linguaggi e nei contenuti, accogliendo con entusiasmo e disponibilità più di duecento operatori provenienti da tutta Italia. Un Festival che ci regalato spettacoli cult come lo storico “Ho un punto tra le mani “ del Tam Teatromusica di Padova dove Flavia Bussolotto, omaggiando Kandinskij, regala ai piccolissimi un mondo nel quale immergersi “con tutti i propri sensi”. Un festival che, incastonati tra gli spettacoli, ha offerto due significativi progetti che ci hanno accompagnato per tutta la durata del festival, offrendo più repliche quotidiane: lo studio di Emanuela Dall’Aglio “Il basilisco” e l’installazione “L'ora delle lucciole di Claudio Milani, creata per il “Piccolo Museo della Fiaba”, il bel progetto di Maurizio Sangirardi che ha casa a Sasso Marconi: una mostra immersiva attraverso cui il pubblico può compiere un vero e proprio viaggio nel fantastico. “Il Basilisco”, che abbiamo visto in forma di studio, presenta il nuovo lavoro di Emanuela Dall’Aglio prodotto da Teatro del Buratto e CSS, dove assistiamo alla nascita misteriosa di una creatura terrificante. Nella suggestiva e affascinante installazione di Claudio Milani invece in soli due minuti, partendo da un verde prato di fiori, al calar della luce siamo catapultati in un mondo che piano piano, attraverso anche la nostra attiva partecipazione, si popola di lucciole e diventa splendente di meraviglia, una meraviglia realizzata attraverso sofisticate tecnologie digitali che sono la cifra dell'artista comasco.
Nel composito programma ha anche trovato un posto davvero speciale Michele Cafaggi con le sue bolle che in “Concerto per Piccoli Cuori e Grandi Sogni”, questa volta ha dedicato la sua arte eterea ai bambini piccolissimi, accompagnati dai genitori che seduti intorno a lui sono rimasti rapiti dalle mille bolle che in modo portentoso l'artista riusciva a creare traendole da ogni sorta di aggeggio, accompagnate dalle musiche di Weill, di Dukas e dei Cure.
Molto particolare, al di là degli spettacoli dedicati all'Infanzia anche il Progetto di raffinato teatro di figura di Consorzio Balsamico “Questi pochi centimetri di terra” che, nella sua ricerca, parte da una malattia molto particolare la “Sindrome da rassegnazione” una patologia riscontrata in Svezia a partire dai primi anni 2000 in bambini, bambine e adolescenti, provenienti da famiglie rifugiate, in attesa di asilo politico e cittadinanza. Silvia Cristofori, Eva Miškovičová, Alessandra Stefanini sulla bella drammaturgia di Giada Borgatti hanno portato un primo studio anche al prestigioso Festival Mondial Des Théâtres de Marionnettes. Nella seconda parte dedicata a “Segnali” su Eolo troveremo il punto di vista di Rossella Marchi su questo lavoro.
All'interno del Festival oltre che gli Eolo Award della nostra rivista assegnati alle eccellenze del Teatro ragazzi italiano sono stati assegnati i premi dedicati alla Drammaturgia organizzati da Elsinor e dal Teatro del Buratto. Si aggiudica il premio quest'anno: “Storia di Momi” di Giulia Trivero. Una menzione speciale è stata attribuita anche a “Giurin Giurello”, il lavoro di Francesca Lepiane. Molto piacevole è stato anche il momento in cui abbiamo ascoltato alcuni degli esiti del laboratorio di scrittura scenica tenuto da Donatella Diamanti.



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CROSS THE LINE/ COMPAGNIA RODISIO / ELSINOR / DERBY THEATRE
LIBERATUTTI /SCENAMADRE /GLI SCARTI ETS
FASSHION VICTIMS – L'INSOSTENIBILE REALTA’ DEL FASHION /TEATRO DEL BURATTO
LA BELLA ADDORMENTATA/RISERVA CANINI /SIPARIO TOSCANA


Molti degli spettacoli presentati al Festival hanno cercato di indagare un periodo della nostra vita molto particolare, tra infanzia e adultità, là dove la nostra identità si sta formando: l’adolescenza.


“Cross The line “ della Compagnia Rodisio, in perfetta continuità con il loro precedente spettacolo “Caino e Abele” e con l’humus coltivato negli anni dal Teatro delle Briciole, dopo gli incontri con più di 500 ragazzi avvenuto tra Italia e Francia, indaga in modo poetico quella linea emotiva ancora incerta, così colma di domande senza risposte certe che in quegli anni ci spinge sempre verso un confine che si tenta di valicare. Questo tentativo provoca spesso un conflitto forte con noi stessi, che non sappiamo ancora bene chi siamo, e con gli adulti, visti non più come protettori ma come antagonisti.
Salvatore Alfano e Gaia Barili sono divisi da quella linea che sta in mezzo al palco e si fanno continuamente domande che hanno forse migliaia di risposte possibili. Non sono ben sicuri di cosa siano, si vedono brutti, simili a scarafaggi, in un momento fragili ma un attimo dopo potenti, rispondendo violentemente ad ogni attacco che viene loro posto. Sono preda di ogni tipo di vento. Ma sanno che devono andare avanti, perchè gli altri lo chiedono, perchè la vita lo chiede. Devono quindi irrobustirsi per non cadere come le foglie degli alberi in autunno, devono imparare dalla luna ad essere pronti a sempre nuove avversità, lei che riesce a tramontare nel gelo della notte. Bisogna quindi fare delle scelte: ma quali? La risposta è una sola, sia per Salvatore sia per Gaia, sia per noi: “Lascia che la vita accada”, sapendo che ognuno di loro, di noi, ha però davanti a sé enormi possibilità, un caleidoscopio di bellezze da poter gustare.
La messa in scena è accompagnata sia da fotografie e disegni significanti sia da un congruo ammaliante tappeto sonoro che va da Pergolesi, a Balanescu, da Camille a Kiwanuka. In scena i due performer gettano al pubblico in cui si riflettono come in un grande specchio, tutte queste suggestioni, attraverso le parole che Davide Doro e Manuela Capece hanno scelto, spesso apparentemente disarticolate tra loro, come un fiume in piena, come un flusso di coscienza, senza dare risposte, perchè sta a ognuno di noi darle. Nel corso della vita che verrà.
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Marta Abate e Michelangelo Frola in “Liberatutti” invece, per entrare di petto nell'adolescenza, ma non solo, utilizzano la metafora dello sport. Dopo il fortunato “Tre”, non è più il rapporto con i genitori a interessare Scenamadre, ma lo sport come metafora dello stare insieme, del rispetto delle regole, del gioco per il gioco. Certo, potrebbe essere ma sappiamo che non è così. In “Liberatutti” invece lo sport diventa sinonimo di conflitto, della causa a volte dirompente della sopraffazione dell'uomo sull'uomo, del potere del più forte sul più debole, un mondo dove lo sbaglio non serve per crescere, ma per essere condannati. E Simone Benelli, Francesco Fontana, Chiara Leugio, Sofia Pagano Soares, mettendo in scena in modo naturale e convincente sempre sé stessi, ce ne mostrano i lati, in modo non pedissequamente serioso ma utilizzando un registro ironico. Si ride dello sport, ma con un sorriso amareggiato: non è più gioco con il quale divertirsi ma business, spazio di perenne conflitto, imbrigliato da egoismi e regole precise piovute dall'alto. Attraverso giochi e parabole se ne mostrano i vuoti riti, le formule obsolete, i finti insegnamenti, l'educazione scorretta tesa alla sopraffazione, il ruolo perverso dei genitori. Una voce (Damiano Grondona) dall'alto cerca di smontarne inutilmente le dinamiche aggressive che qua e là, tra il personale e il teatrale, nascono sul palco riuscendone ad evidenziarne le manchevolezze.
E’ bello e significante anche il finale con quel nastro adesivo che imbriglia “il campo di gioco”, con quel mettersi in gruppo perchè solo aggregandosi si vince veramente.
Ma alla fine ci rimane la sensazione che al coraggio pur meritevole nella forma e nel contenuto di “Liberatutti” possa, almeno per noi, mancare un azzardo maggiore che avrebbe potuto essere ancora più dirompente, soprattutto nel finale, in quella preghiera-confessione che ironizza ancora sullo sport, graffiando certo, dove avrebbe potuto invece anche far sanguinare.
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“L’industria tessile produce da sola più CO2 del trasporto ferroviario, marittimo e aereo messi insieme. 150 miliardi di vestiti per 7 miliardi di persone. Un’orda tessile che si trasforma in rifiuto, milioni di tonnellate di indumenti che arrivano in discarica generando metropoli di spazzatura tossica. Intanto, terre millenarie sono sfruttate al punto da non generare più nulla. Il mondo della fast fashion è l’esempio eclatante di un sistema al collasso, di un certo modo di produrre attraverso lo sfruttamento di persone e risorse ambientali che sta finalmente mostrando i suoi limiti, ma che ancora perdura.”
“Fashion victims – L'insostenibile realtà del fashion” prodotto da Teatro del Buratto, porta in scena l'adolescenza da un altro punto di vista: quello dell'abbigliamento, costruendo nel contempo una pregevole e necessaria creazione di denuncia su un fenomeno come quello del “fast fashion” assolutamente nascosto.
Protagonisti di questa storia sono Davide del Grosso e Marta Mungo, Marco e Mahima, due ragazzi che abitano in due mondi lontani e contrapposti, ma che vivono entrambi nel profondo tutte le contraddizioni del nostro mondo. Lui, Marco ha sedici anni e vive a Milano, è figlio unico, può comprarsi quello che vuole, anche 10 magliette al giorno di ogni tipo e per ogni occasione: Nike, Adidas, Reebok, Diadora, Abercrombie, Volcom, Vans, Robe di Kappa. Lei di anni ne ha solo 14 e vive a Dacca in Bangladesh, dall'altra parte in un altro mondo, in cui ogni risorsa, compresa quella umana, viene sfruttata fino a esaurirsi. Mahima da quando aveva 8 anni lavora in fabbrica: cuce le tasche per i vestiti e quando sarà più grande sarà venduta come una cosa.
Tra Marco e Mahima ci sono ottomilanovecento chilometri di distanza. Neanche lo immaginano che l’altro, che l’altra, esista davvero. Eppure condividono la stessa cosa, sono in qualche modo collegati. Il loro Mondo è lo stesso ma il loro modo di viverlo è diverso. Lui, ad esempio, pensa spesso al futuro, a cosa diventerà, all’università che sceglierà, al lavoro. Lei pensa a quando potrà tornare a casa per riposare dopo la fatica immane di fare sempre le stesse cose e poi del futuro saprà già quello che accadrà. Oppure no. Perchè il 24 aprile del 2013 al Rana Plaza di Savar sono collassati otto piani di fabbriche tessili, con più di tremila persone al loro interno. Lo spettacolo vive sul continuo rapporto di queste due esistenze che mettono continuamente lo spettatore nella difficoltà della consapevolezza. E' forse per questo che, nel finale, il registro dello spettacolo cambia, cercando un contatto diretto con il pubblico, coinvolgendolo nella riflessione che per tutto lo spettacolo ha seminato, andandosi a prendere ogni ragazzo e ogni ragazza, lì dove sono seduti: “Vorremmo dirvi che lo scopo non è farvi sentire in colpa. Non è mortificarvi. Non è dirvi che siete superficiali, ignoranti, stupidi. Vorremmo dirvi che chi vi parla non è migliore di voi e che le generazioni venute prima non hanno saputo fare nulla di meglio. Vorremmo chiedervi scusa, per quello che vale. Vorremmo che uscendo di qua vi diceste: questo lavoro non mi è piaciuto, perché questa storia mi fa schifo. E iniziaste ad inventare una storia tutta diversa.
E lo immagino, lo immagino, che questa abitudine che iniziamo ad avere noi adulti nel dirvi: ecco, il futuro è nelle vostre mani, buona fortuna, ciao ciao, vi spaventa e
vi mette un’ansia pazzesca. Ma forse è perché ci fidiamo più della vostra sensibilità che delle nostre scelte. E comunque cercheremo di non lasciarvi soli, per quello che vale!”
Uno spettacolo importante ben impostato dai due interpreti che avrebbe bisogno qua e là di una piccola sforbiciata di retorica, ma che senza pietismo alcuno porta i ragazzi ad entrare di petto nelle contraddizioni della nostra contemporaneità votata sempre di più al profitto e allo sfruttamento, senza regole di un mondo che ben presto, se non ce ne prenderemo cura, ci si rivolterà contro.
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Anche nel composito spettacolo di Teatro di Figura “La bella addormentata” concepito da Riserva Canini di Marco Ferro, si parla di adolescenza attraverso i sogni di una bella addormentata che non sappiamo se sia veramente quella dei Grimm, ma intuiamo che sia una ragazza alle soglie dell'adolescenza. Che lingua parlano i sogni? Ferro ha condiviso questa domanda con decine di gruppi di ragazzi e bambini in giro per l’Italia, interrogandoli sulla questione, per renderne significanti le risposte nello spettacolo. Ne è venuto fuori un ricco, forse troppo, curioso e stimolante “pastiche”, come del resto lo sono tutti i sogni, che mescola la fiaba con la realtà, Verdi, Tchaikovskij e i Fratelli Marx, ancora in qualche punto da registrare, da rendere meno macchinoso, restituendolo anche in modo più riconoscibile al pubblico di riferimento, quello che ancora deve formarsi un'identità. “La bella addormentata” resta comunque un esempio di Teatro di figura meritevole di azzardo che cerca di uscire dai canoni prestabiliti della fiaba per riconsegnare sul palco ai ragazzi un mondo ricco di possibili domande e suggestioni. Nella seconda parte di “Segnali” Samuel Zucchiati proporrà il suo punto di vista su questo lavoro.

MARIO BIANCHI



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TOMA E CAROLINA/ ANFITEATRO-UNOTEATRO

La storia è quella di Tomaso, figlio di genitori separati che del padre ha solo il ricordo del piacere condiviso rispetto all’epopea del West ; si veste con un completo da cow-boy da lui regalatogli ed ama un vecchio cartone animato Sam ragazzo del West, appunto, che guarda sempre alla televisione.. Forse anche per questa sua passione è evitato dai compagni di scuola che sono fans dei personaggi dei cartoni animati contemporanei. Ma un giorno la televisione si guasta e questo costringe Tomaso a trovare passatempi diversi. Grazie a uno di questi – la costruzione di una capanna in un giardino abbandonato - ha l’opportunità di diventare amico di Carolina, una bambina di poco più grande di lui, che lo instraderà al recupero positivo del rapporto con gli altri e del gioco di fantasia, ed alla lettura dei libri.
Nel testo scorrevolissimo ed efficace di Giuseppe Di Bello, trovano posto l’educazione sentimentale, il valore dell’amicizia, il rapporto con i genitori, l’amore per i libri, l’importanza dell’immaginazione e il gioco fantastico, spesso non più praticato a causa del sempre maggiore rapporto che lega il singolo bambino ai dispositivi tecnologici che lo circondano. La colonna sonora ricorda i migliori film dell’epopea del West e sottolinea il mondo che Tomaso comincia a ricreare dopo la “morte” del televisore: chi di noi, uscendo dal cinema, dopo aver visto un film di Sergio Leone , non ha per un attimo socchiuso gli occhi cercando il proprio cavallo, facendo tintinnare gli speroni? La scenografia essenziale (un solo baule in scena, che diventa letto, cavallo, duna,…) fa da spalla all’attenta ed ottima interpretazione di Marco Continanza, che riesce ad essere il piccolo Tomaso senza abbandonare il suo essere adulto (e anche grande e grosso!), cosa rara nel teatro, dove spesso rappresentare i bambini vuol dire vocine e atteggiamenti infantili.
Uno spettacolo davvero per tutti - dai 6 ai 90 anni – anche grazie all’incipit : la sigla di Sam ragazzo del West - interpretata dall’indimenticabile Nico Fidenco - cartone animato trasmesso per la prima volta da Rete 4 nel 1982. I più vecchi l’avranno sentita come nonni o come genitori, ai più giovani (i quarantenni) ricorderà la loro infanzia e gli spettatori giovanissimi, ai quali è davvero dedicato “Toma e Carolina”, anche se la musica non ricorderà loro nulla…beh, si godranno questo spettacolo.

NICOLETTA CARDONE JOHNSON

Abbiamo chiesto a Matilde Marras del corso di critica organizzato da Hystrio con Assitej di approfondire lo spettacolo " Seggioline" del Teatro del Telaio.

SEGGIOLINE/ TEATRO TELAIO

Seggioline è lo spettacolo di Michele Beltrami prodotto daTeatro Telaio, con Michele Beltrami e Paola Cannizzaro.
In scena all’inizio c’è Lui, che costruisce da solo seggioline rosse e guarda diffidente ciò che lo circonda. Poco dopo entra Lei, con un sacchetto pieno di oggetti del mondo di fuori. Lui, spaventato, la guarda giudicante, finché non gli servirà dal sacchetto una gamba di una sedia per costruirne una nuova. A quel punto i due inizieranno ad interagire e Lui, piano piano, a fidarsi. Fra la musica e la danza, viene pronunciata una domanda, una delle pochissime frasi di tutto lo spettacolo: “Quanto tempo ci vuole per diventare grandi?”.
A questo punto la storia va avanti provando a rispondere al quesito. Viene introdotto l’elemento acqua, che attraverso un innaffiatoio diventa lo strumento per far crescere non solo le seggioline, ma anche una sagoma immaginaria suggerita da due stivali da bambina. E allora, con poesia e dolcezza, la risposta sottesa sembra essere che si cresce, spesso, anche grazie alla cura che ci si mette, e alla fiducia verso chi ha voglia di accompagnarci nel viaggio. È però una risposta implicita, mai dichiarata né didascalica, senza la pretesa di insegnare una qualche verità. Si ha anzi l’impressione che chi è in scena si ponga la domanda insieme ai bambini, il che rende tutta l’operazione più interessante. I giochi teatrali, buffi e brillanti, accompagnano i gesti dell’attore e dell’attrice con delicatezza e favoriscono l’immersione nella drammaturgia, fatta di pochissime parole, molta musica e leggerezza, che non diventa mai superficialità. Convince soprattutto il tema affrontato e la potenzialità di coinvolgere un pubblico molto variegato, dai 4 anni in su: la domanda sul tempo che passa è universale e iniziamo a porcela da molto presto. Ed è sempre stimolante coinvolgere i bambini nelle più urgenti domande esistenziali. Solo nei dieci minuti finali in qualche modo il meccanismo drammaturgico si fa troppo didascalico: con lo stesso legno delle sedie, viene costruita la sagoma di un bambino, che viene accompagnata dagli attori in giro per il palco. L’aggiunta risulta superflua, dal momento che la metafora del personaggio da innaffiare e da far crescere era già stata suggerita da diverse invenzioni disseminate creativamente nel corso dello spettacolo, e ottiene, secondo noi, così l’unico risultato di allungare la durata dello spettacolo, già ormai al limite per un pubblico di piccolissimi.

MATILDE MARRAS



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