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Eolo
recensioni
FESTIVAL SEGNALI A MILANO/ SECONDA PARTE
Le recensioni di Rossella Marchi e gli sguardi di Samuel Zucchiati ed Eleonora Blandini

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FESTIVAL SEGNALI A MILANO/ SECONDA PARTE


QUESTI POCHI CENTIMETRI DI TERRA – Consorzio Balsamico

Un grande merito dobbiamo corrispondere ad Animateria, il corso di alta formazione per animatori esperti nelle tecniche del teatro di figura promosso da Teatro Giocovita e Teatro del Drago, perché in questi quattro anni di esperienza ha cresciuto e sta crescendo alcune realtà artistiche veramente interessanti. Ravvisiamo anche un altro merito: quello di aver portato gli operatori del teatro ragazzi a confrontarsi sempre di più con i linguaggi del teatro di figura che in questi ultimi anni hanno visto crescere in maniera esponenziale la loro rappresentanza nelle vetrine e nei festival di teatro dedicato alle nuove generazioni. Consorzio Balsamico è sicuramente una delle realtà più interessanti che si sono formate all’interno del caldo nido di Animateria. Cinque artiste con anime e provenienze anche molto diverse che hanno trovato nel lavoro insieme la sintesi delle loro specificità. “Questi pochi centimetri di terra” è il risultato del loro interessante percorso di ricerca. Uno spettacolo ben realizzato nel quale riconosciamo una cura e un’attenzione verso la figura e quello che esprime che non può non colpire. In scena Silvia Cristofori, Eva Miškovičová, Alessandra Stefanini, tre animatrici di grande sensibilità che, dirette da Virginia Franchi, narrano, attraverso le loro mani e la loro forte presenza, una storia che parte da un fenomeno preciso ma che nello spettacolo assume un valore in cui tutti possiamo riconoscerci. Questo fenomeno accade in alcuni paesi del nord Europa a bambini e bambine che provengono da famiglie rifugiate. Si tratta della sindrome della rassegnazione. La caratteristica di questa sindrome è di far cadere in un sonno quasi interminabile chi ne soffre. “Questi pochi centimetri di terra” ci conduce per mano a prenderci cura di questo tempo, il tempo del sonno, il tempo, che spesso è anche il nostro, della mancata risposta immediata ad una situazione che non sappiamo affrontare. Talea riceve una notizia terribile che la sconvolge a tal punto da farla cadere in un sonno profondissimo. Talea è una meravigliosa marionetta matrioska dalla quale, durante il sonno, esce Humus, un’altra stupenda marionetta che in verità è una parte di Talea, quella che l’aiuterà a rendere il tempo del sonno un tempo fecondo a far nascere in lei la risposta al suo dolore. Attraverso il viaggio di scoperta di Humus ci accorgiamo di quanto quel tempo sospeso, il tempo che ognuno di noi si trova ad affrontare tutte le volte che non si ha una risposta immediata ad un problema, sia un tempo di necessario ristoro dell’anima che ci permette di accogliere la criticità e trovarne la risposta che può essere una soluzione o, semplicemente, la sua accettazione. Tutto lo spettacolo suggerisce una riflessione sul Tempo.

Darsi tempo vuol dire aver rispetto per sé stessi, vuol dire accogliere il proprio limite e sondarlo, conoscerlo. Darsi tempo è un atto rivoluzionario e, guarda caso, in questo spettacolo la strada ce la indica una bambina, che non essendo pronta a rispondere ad un problema più grande di lei si addormenta e trova nel viaggio dentro quel sonno il terreno fertile per far crescere il seme della speranza. La scena infatti è cosparsa di terra ad evocare ad ogni passo come ogni seme che riposi al caldo della terra costruisca in sé la forza di germogliare. E Tempo è quello che chiede questo spettacolo allo spettatore. Il tempo di osservare cosa succede, perché quel che succede ha bisogno di un tempo per accadere. Lo spettacolo ti accompagna in questo viaggio tra immagini e testo che scorre come acqua di una voce/terra narrante. Un testo evocativo quello di Giada Borgatti che non spiega mai ma incornicia lo sguardo di chi osserva. Forse la richiesta di questa attenzione è in controtendenza ai nostri tempi. Sono tempi in cui il pubblico ha la necessità che quel che deve accadere accada in fretta, che l’evento sia eclatante, il ritmo incalzante, che, insomma, il tempo dell’arte si sposi sempre di più al tempo in cui ci costringe la quotidianità. Ma i linguaggi del teatro sono molteplici e ognuno ha bisogno di un tempo di fruizione. Varcare la soglia di un teatro vuol dire anche accogliere uno spazio/tempo diverso da ciò che c’è fuori. Pensiamo che se il teatro dovesse cominciare ad inseguire i ritmi e tempi che la quotidianità suggerisce perderebbe la sua specificità. Il pubblico non deve perdere la spinta alla curiosità, non deve cedere all’aspettativa. L’evento teatrale si costruisce in due, spettatori e artisti. E la magia si copie quando entrambi sono pronti all’ascolto.



A META’ STRADA Storia di Giraffa e Pinguino – Teatro del Buratto

Dedicata ai bambini e alle bambine dai 3 anni la nuova produzione del Teatro del Buratto è affidata Jessica Lionello e Roberto Capaldo (che abbiamo già visto, tra gli altri, nel riuscito lavoro dedicato ai più piccoli “Home sweet home” capitolo 1 e 2). E’ una storia poetica e semplice quella raccontata dai due attori/autori. Giraffa vive sola e ha il sogno di sedersi ma non riesce a farlo a causa della lunghezza delle sue gambe che la costringono a stare sempre in piedi. Si sente sola Giraffa perché non conosce nessuno. Per questo un bel giorno decide di inviare un messaggio e affidarlo al vento. Il messaggio arriverà dritto a Pinguino, che ha il grande sogno di volare, nonostante le sue ali non glielo permettano e questo suo desiderio così particolare lo abbia isolato dagli altri pinguini. Incuriositi l’uno dall’altro e desiderosi di cominciare questa nuova amicizia decideranno di incontrarsi a metà strada. Ma come fare a riconoscersi? Giraffa non aveva mai visto un pinguino prima né Pinguino aveva mai conosciuto una giraffa. Quando infatti si incontrano la differenza di altezza non permette a loro di vedersi e riconoscersi tanto che ognuno crede che l’altro non sia andato all’appuntamento ma, scambiandosi messaggi sempre più frequenti, capiscono che semplicemente non si sono riconosciuti.

Decidono quindi entrambi di fare un disegno dell’altro sulla base delle indicazioni ricevute e affidare al vento il messaggio. Nel momento dell’incontro quindi inizialmente non si riconosceranno: i disegni sulla base delle descrizioni sono molto diversi da come i due personaggi sono effettivamente, ma parlandosi capiranno di essere proprio loro e, felici, tenteranno di abbracciarsi ma…la loro differenza fisica non lo permetterà. Cercheranno anche di imbastire un pic nic, prima a casa di Giraffa, ma il tavolo sarà inarrivabile per Pinguino, poi da Pinguino ma l’apparecchiamento a terra non permetterà a Giraffa di potersi sedere. Anche le leccornie preparate da uno per l’altro non incontreranno i gusti dell’ospite. Intristiti da tante difficoltà torneranno ognuno alla propria casa. Ma la solitudine li farà propendere a riprovare l’incontro. Questa volta Pinguino ha costruito dei piccoli trampoli che lo faranno arrivare finalmente più vicino a Giraffa e Giraffa ha trovato il modo di sedersi e così, finalmente vicini ma ognuno con le proprie differenze, trovano un modo comune per stare e divertirsi insieme. E’ un delicato racconto, ben fatto e ben scritto quello di Giraffa e Pinguino. Parla con semplicità ed ironia di differenze, accettazione e di quanto sia importante sognare ed immaginare. La scena è un interessante struttura che permette, girando, di cambiare gli scenari, i costumi sono originali e non scontati, gli attori convincenti da cui si evince un gran lavoro di caratterizzazione, per nulla scontato, dei personaggi. Alla fine intuiamo che l’amicizia di Giraffa e Pinguino si allargherà. Arriverà infatti, portata dal vento, la lettera di Gallo che aveva il sogno di svegliarsi tardi la mattina…

GROGH, STORIA DI UN CASTORO – La Baracca Testoni Ragazzi

Quando una storia è ben scritta e ben narrata ci si accorge già dalle prime battute di come sia senza tempo. I bambini di ieri e quelli di oggi, i bambini che siamo stati e gli adulti che siamo hanno tutti gli stessi occhi pur nutrendosi diversamente. Questo è il caso di “Grogh, storia di un castoro” una scrittura di Enrico Montalbani e Bruno Stori liberamente tratta dal racconto di Alberto Manzi e portata in scena da un bravissimo Fabio Galanti diretto da Bruno Stori. Fabio è un appassionato di castori. Ma talmente appassionato da saper tutto di loro, da sentirsi quasi uno di loro, tanto che a noi appare quasi come un uomo/castoro. La storia che ci racconta è quella di Grogh, il grande eroe del popolo dei castori. E’ importante la storia di Grogh perché è una storia di resistenza. Grogh infatti, dopo aver visto uccidere suo padre per mano dell’uomo, raduna tutti i castori del villaggio e li conduce lontano, verso il bosco e oltre fino a trovare una vallata con una cascata vicino. Lì decide che è il luogo giusto per ricostruire il nuovo villaggio e tutti i castori del libero popolo dei castori si mettono a lavorare per ricostruire quella che sarà la loro colonia. Ha regole precise il libero popolo dei castori, una vera e propria costituzione che al primo articolo recita che ognuno deve fare del proprio meglio e dare il proprio contributo.

Costruiranno una diga, e anche noi spettatori impareremo come si fa, e ognuno poi edificherà la propria casa e vivrà come più gli piace perché nella società dei castori il comandante esiste solo nel momento del bisogno ma una volta superatolo tutti i castori tornano ad essere uguali. E per cinquanta minuti entreremo nel mondo dei castori, scoprendo l’organizzazione di tutta la comunità, come vive, di cosa ha paura, cosa mangia come affronta l’inverno. Fabio Galanti regala al pubblico tutta la sua energia e bravura, ha modi semplici per raccontare ogni cosa, ogni evento che accade: una manciata di coriandoli bianchi per la neve e un lenzuolo bianco per l’inverno, una pelle di lupo gettata addosso per raccontare il terrore dei castori e del pane carasau per offrirci il loro tramezzino preferito: due fette di corteccia di abete con in mezzo una fetta di corteccia di salice. Arriva la primavera e la stagione dell’amore e con delicatezza racconta l’incontro tra Grogh e Logh e la loro danza di Cortecciamento dalla quale nascono tre castorini. E poi il fuoco che tutto distrugge e la pioggia che tutto spegne e Logh che con i tre castorini sparisce, persa nella distruzione del villaggio ad opera del fuoco. Ma Grogh non si perde d’animo e insieme agli altri s’ingegna per ricostruire. Ma ormai l’inverno è alle porte e tutto congela oltre a risvegliare la fame dei predatori come il lupo Hug che di molti castori fa scorpacciata. E ancora una volta sarà Grogh che con l’aiuto dell’alce El trarrà in trappola il lupo e lo sconfiggerà per poi accorgersi che un altro predatore, il peggiore di tutti, già minaccia il villaggio: l’uomo. Ma questa volta di tutta la comunità dei castori ne rimarranno solo pochi. L’uomo, l’unico essere vivente che non rispetta le leggi della Natura perché uccide per soldi, aveva sterminato quasi l’intero villaggio. Per salvare gli ultimi castori rimasti Grogh si sacrificherà fino a perdere la vita ma questo permetterà agli altri di ricostituire la comunità. Un racconto senza sconti offre questo spettacolo perché non ha paura di raccontare la Natura per quella che è con le sue cose belle e gli eventi implacabili, affronta la morte e la vita così come sono, due facce della stessa medaglia. Non mitiga né narra in modo edulcorato gli eventi ma ti accompagna tenendoti per mano in tutti i momenti in cui l’incontro con il pericolo può suscitare paura. Usciamo dallo spettacolo con un sentire più strutturato su cosa sia la lealtà e il senso di comunità. Di come le regole debbano essere sempre il frutto di un pensiero democratico e debbano essere sempre funzionali alla comunità. Usciamo comprendendo fino in fondo come la solidarietà e l’amicizia siano la base di una buona società. E con un po’ più di speranza.

ROSSELLA MARCHI 






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Samuel Zucchiati ed Eleonora Blandini che hanno partecipato al laboratorio di critica rivolto al Teatro per l'infanzia organizzato da Assitej Italia e Demetra Formazione ci parlano degli ultimi 5 spettacoli del Festival

LA BELLA ADDORMENTATA - Riserva Canini 

Premessa importante al nostro approfondimento sullo spettacolo : Riserva Canini non ha bisogno di presentazioni: è infatti riconosciuta come eccellenza nel settore, entrando nel tessuto del Teatro Ragazzi così bene da permetterci di usare l'appellativo "storica" , senza alcun timore. Ha prodotto spettacoli molto apprezzati e questo percorso artistico deve essere preso in considerazione per avvicinarci a quello che abbiamo visto sul palco del Teatro Munari .
La compagnia chiede agli organizzatori teatrali tramite un post social, dedicato a questa produzione , di avere coraggio "e rischiare qualcosina", forse perché secondo noi anche la compagnia ha intravisto un rischio in questo spettacolo e del resto è un dovere per chi crea teatro “Avere coraggio di azzardare “ anche sbagliando .
 Cominciamo dal titolo. "La bella addormentata" che richiama all'immaginario della favola classica e al momento dell'apertura del sipario lo spettatore ha già una serie di aspettative con cui sarà molto difficile fare i conti, una volta salutata la compagnia con gli applausi di commiato.
La messa in scena vuole indagare il linguaggio onirico proprio a partire dalle risposte di ragazzi e bambini alla domanda "che lingua parlano i sogni?". Le risposte, chiosa la compagnia, sono arrivate da tutta Italia. Così sembra che l'attenzione del processo creativo per Marco Ferro dalla Fiaba si sia spostata sui sogni della Bella Addormentata (in 100 anni di sonno ne avrà sognate di cose...) ed è qui che comincia la lotta tra la promessa del titolo e la resa della messa in scena. Secondo noi infatti la complessa drammaturgia si annoda, si avviluppa da un lato, ma non si spiega e non si sviluppa dall'altro, pur arrivando a porre domande importanti sul mondo dei sogni ai ragazzi .
 
Per meglio argomentare il nostro discorso chiediamo alla direzione artistica del Festival in merito alla scelta di mettere a cartellone questo lavoro. "Ci affascinava molto il percorso svolto dalla compagnia, che è partita dalle risposte dei suoi spettatori" mi spiega Renata Coluccini, poi continua "un lungo investimento per elaborare un tema importante a partire da materiale di ottima qualità. La curiosità era tanta".
Qualcosa però dev'essere per a nostro avviso andato storto nelle diverse fasi del processo creativo e che l'ingranaggio si sia inceppato nella fase intellettuale del procedimento. Ed è tutto rimasto lì. Infatti quello che ci pare di aver percepito è che lo spettacolo risulti essere soprattutto un elogio all'ambivalenza e alla possibilità per ognuno di noi di essere sia una cosa che l'altra e nel medesimo tempo il contrario di queste. Tutto ciò avviene attraverso un interessante sdoppiamento, triplicamento e quadruplicamento del personaggio, la cui identità è sparpagliata nelle terre del sogno, reso tramite effetti audio, voice-over e maschere che hanno pure delle scritte esplicative dipinte sopra (ma ció anziché essere strumento per creare personaggi, ne "La bella addormentata" riteniamo che invece siano soprattutto accessori per coprire volti e fare il gioco pirandelliano del chi-è-chi , senza andare oltre a questo cliché ma tutto ciò non aiuta a uscire dall'intellettualismo, anzi, forse contribuisce a impantanarsi nei dubbi esistenziali di Gilda e a lasciare nel dubbio narrativo il pubblico.
Va riconosciuta comunque la capacità di porre domande importanti sulla ricerca della propria identità ed è anche interessante il riferimento al “Rigoletto”con la presenza della protagonista Gilda in conflitto con il padre, che rimane però gustosa solo per gli amanti dell'opera.
Infine ci pare che l’attore /autore ammetta in scena che ci capisce poco di quello che sta succedendo e sembra ammiccare a una spiegazione che arriverà, ma che secondo noi non arriva.
Forse spostando il target della messa in scena da quello prescelto di 6-10 anni ad un pubblico di adulti potremmo rivedere completamente questa performance e dargli il giusto valore. Potremmo vederlo come un tentativo di dare spazio alle gigantesche domande della Bella Gilda Addormentata.
Almeno noi pensiamo che pubblico bambino è probabilmente messo a dura prova da questa messa in scena : Il motivo è semplice: essa usa una metafora (la fiaba) come metafora per spiegare il sogno, che è esso stesso una metafora per esplorare la formazione del proprio sé.
Perché il target 6-10 anni allora è indatatto per uno spettacolo che gioca con una metafora a tre strati ?
Perché la metafora richiede la capacità di inibire il significato letterale delle parole e concentrarsi su altri aspetti. Questo vuole abilità cognitive complesse e capacità di cognizione sociale, visto che dobbiamo capire che chi sta usando la metafora ha un’intenzione comunicativa diversa da quella che manifesta a livello letterale. Quindi la comprensione di una (e una sola) metafora è decisamente un compito complesso già di per sè.

Dal punto di vista evolutivo, nei bambini questa capacità di comprendere le metafore matura lentamente rispetto ad altre competenze linguistiche che aumenta progressivamente fino a diventare prevalente attorno ai 14 anni come ha osservato H. R. Schaffer in Psicologia dello Sviluppo, Cortina Editore. In sostanza Riserva Canini sta giocando d’azzardo in merito alla comprensione di questo spettacolo da parte del pubblico prescelto.Con il pubblico bambino la compagnia potrà confrontarsi e magari aggiustare il tiro, oppure, a nostro modesto avviso cambiare pubblico.
 
 
STREGHE -Progetto g.g . /Accademia Perduta

Streghe. Per chi si occupa di infanzia la parola non può che rimandare al mitico romanzo di Roald Dahl. Le attrici di Progetto g.g. hanno quindi voluto cimentarsi con un Classico con la C maiuscola osando e riuscendoci anche grazie alla produzione di Accademia Perduta/Romagna Teatri.
Osano, perchè le tecniche manipolative con pupazzi mossi a vista e lo stile narrativo devono stare dietro a una storia con un ritmo incalzante e una struttura articolata.
Osano perchè vogliono raccontare un classico della letteratura per ragazzi dove le Streghe sono al centro senza che queste Streghe siano al centro della loro messa in scena.
Osano perchè intravedono uno dei tanti temi di questa bellissima storia, quello del rapporto nonna-nipote, e decidono di farlo diventare la lente attraverso cui tutto il resto passa.
Consuelo Ghiretti e Francesca Grisenti mettono in secondo piano l'universo creato da Dahl popolato da Streghe che rapiscono e “fanno fuori” bambini (soprattutto quelli ben lavati, perché puzzano terribilmente di cacca di cane al naso di una strega!!) per mettere un focus sul rapporto giocoso, affettuoso e spassoso tra nonna e bambino. In un certo senso tirano molto questa corda dando così poco spazio alle streghe. Spieghiamo in che senso: il clou della storia rimane comunque la lotta contro il male, le scene di pura azione dove il bambino-topo deve sopravvivere a un hotel gremito di streghe capeggiate da una super-motivata-ad-ucciderlo Strega Suprema. Consuelo e Francesca affrontano questa grossa fetta di storia a gran velocità, illustrandola su un'enorme telo-schema, come a dire che l'impresa del protagonista non è così essenziale da doverci dedicare troppo tempo. Questo risparmio di tempo non è per forza un pregio, dal momento che l’intricata linea di azioni che porta un topolino a far fuori un intero albergo di streghe vorrebbe un po’ più di uno schema riassuntivo.

Il tempo risparmiato è investito in momenti da salotto e chiacchierate sui bei tempi in cui la nonna era giovane (intorno al "millenovecento-vattelapesca" o al "millenovecento-non-so-che" quando lei era un vero "smandrappone" di ragazza).
La confidenza tra nonna e nipote riesce a creare un bel clima nel salotto della loro casa e riusciamo a capire la forte valenza educativa dell'irriverenza, del sarcasmo e dell'ironia della vecchia pupazza. È questo che rende azzeccata la modalità in cui le streghe cercano di "adescare" il bambino, spuntando dai cassetti, chiamandolo al telefono e creando illusioni fino a che non riusciranno ad avvelenarlo con una pozione che lo renderà topo per sempre. L'adescamento nella casa è efficace proprio perché vìola quel bel clima creatosi poco prima, seppur con delle streghe che hanno ben poco spazio in scena.
Il rapporto nonna-nipote è di certo importante nel romanzo come anche in questo spettacolo ma lo è ancor di più per il sistema di welfare italiano, quindi un classico inglese che diventa così prepotentemente attuale per l'Italia contemporanea è sicuramente meritevole di esser preso in considerazione.  La scenografia di Galloni è un giusto marchingegno dove far stare tutto in piedi e le attrici riescono a valorizzarla senza esaltarla troppo, esattamente come una scenografia dovrebbe essere: così funzionante che non si fa notare e piena di usi per creare effetti e dare ritmo ai movimenti in scena.
 
 
IL CIRCO SENZA TETTO-Lampisteria teatro-Babel Crew
Dopo una mattina intensa di laboratori teatrali con la 2E della scuola di Lainate ci dirigiamo al Teatro Munari per assistere alla produzione di una compagnia giovane con uno degli artisti presenti che abbiamo conosciuto durante un laboratorio tenuto da Controluce Teatro D’Ombre, condividendo una bella esperienza di forme, luci e ombre.
 “Il circo senza tetto “ nasce da un’idea di Pierre Jacquemin uno spettacolo totalmente realizzato con le ombre, che racconta di un ragazzo che nel suo paese ha la capacità di soddisfare i bisogni di ogni suo abitante : se avevi bisogno di una cosa lui sapeva recuperartela ed era pronto sempre a farti dei favori. Potrebbe essere una bella premessa per un racconto che parla della necessità di saper dare ma anche di saper ricevere e qualche volta saper chiedere. Magari per mutuare aspetti pedagogici importanti tramite il grande potere metaforico dell’ombra. Purtroppo no l’occasione ci è parsa mancata.
 
Il giovane ragazzo, che rimanda chiaramente all’arlecchino di Pablo Picasso, si perde e incontra un circo che lo aiuterebbe a ritrovare sé stesso in una gran confusione di forme e colori. La storia è di per sé semplice e concreta, anche se Viviana Dorsi e Pierre Jacquemin non hanno saputo sfruttare queste caratteristiche come un vantaggio. Infatti molte volte il racconto si interrompe e sosta su un aspetto, un sentimento o un concetto senza mai arrivare al dunque. All’ennesima riflessione diventano addirittura soste forzate per il pubblico, che continua a non capire dove stiamo andando a parare. Si sosta, senza contribuire concretamente alla linea narrativa dandone uno sviluppo. La semplicità paga, ma né la regia né la drammaturgia ha saputo a nostro avviso riscuotere questa ricchezza.
 La scelta del linguaggio delle ombre è tuttavia spesso molto efficace nella sua funzione evocativa, ma la tecnica usata è spesso utilizzata in modo impreciso ed eseguita troppo freneticamente e con un utilizzo del suono cacofonico.

SAMUEL ZUCCHIATI

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"OSSICINI Storia delle cose perdute e ritrovate-Compagnia Rodisio/Solares Fondazione delle Arti
 
Un racconto che si trasforma, una danza senza fine che rappresenta un un mondo sevaggio , ancestrale, dove regna la morte governato da una presenza femminile senza età e tempo.
Utilizzando una scenografia pressocché inesistente lo spettacolo della compagnia Rodisio, grazie anche all'ausilio suggestivo e potente di suoni e luci, riesce a farci immedesimare nell'immaginario onirico e spiazzante di questa vera e propria misteriosa foresta . 
Qualche ramo e la presenza delle ombre sono sufficienti per farci immergere nella natura fino alle sue viscere, nel suo essere più disinibito e senza freni. 
E in questo luogo e in questo tempo avviene un incontro, tra una vecchia e una bambina. 
Uno di quegli incontri che rimangono impressi, nonostante lo scorrere del tempo, perché il tempo pare non esistere in questa storia. 
“La morte è un supplemento della vita” ci suggerisce Ossicini :
le ossa al danzare della donna riprendono il loro corpo e il proprio respiro. Questa storia è un inno alla vita, tramite la morte, nella maniera più cruda e selvaggia che ci sia.
Il racconto prende spunto da “Donne che corrono coi lupi”, di Clarissa Pinkola Estès, per giungere successivamente a una scrittura originale. Qui vi è l’incontro tra una bambina e una figura “mitica”, presente in molte culture la “Loba”, la Lupa, una donna curatrice che vive da sola nel bosco, capace di creare riti di rinascita, riportando in vita un animale. 
In via metaforica questa fiaba ci riporta al concetto della cura dell’anima ponendo attenzione a se stessi e all’altro, offrendo un occhio di riguardo verso le proprie radici e fondamenta, così da poter arrivare al proprio io. E riuscire, poi, a vedere il mondo da un’altra prospettiva, più profonda.
E quindi cosa significa prendersi cura dell’essenza di sé? 
Questa è la domanda insita dentro “Ossicini” Storia delle cose perdute e ritrovate” Tutto si sviluppa attorno a una fiaba classica, in un’ambiente tranquillo, dove d’improvviso un evento doloroso toglie il sorriso alla bambina, innescando l'inizio di un viaggio di maturazione e di crescita personale. 
L’attrice, Francesca Tisano, interpreta sia la curiosa e delicata bambina, sia la donna saggia e misteriosa, cercando di esprimere quanto più possibile l’essenza di questi due personaggi.
Sarà lei a raccontare questa storia, a voce per la prima parte dello spettacolo e con gesti e corpo poi, mostrandoci con linguaggio fisico ciò che ha precedentemente narrato. Una seconda parte che secondo noi ha ancora la possibilità di essere resa più corta e più concentrata, così da far risaltare al meglio il contenuto parlato della prima.
Lo spettacolo è pensato per adulti e per bambini dai 3 anni in su, ma per cogliere davvero il significato è meglio che i bambini siano un po’ più grandi. Gli adulti, invece, riusciranno tranquillamente a godere di questa storia, vedendola in una chiave di lettura e in una prospettiva diversa da quella di un bambino. Per concludere lo spettacolo, come scena finale, ecco una apparizione stupefacente. Arriva dall’alto, composta di ossa, ed è proprio lei a concludere la danza : una figura quasi eterea, adesso è lì. Imponente, davanti ai nostri occhi. L’arrivo, però, pare essere troppo improvviso, quasi a spezzare la magia che si era venuta a creare. La scelta di essere mostrata in maniera così palese pare quasi andare in contrasto con l’atmosfera della storia che si è voluta mantenere fino a quel momento
 
 
 
 
 
IL PRINCIPE CHE SARÀ /Storia di padri, figli e misteri/ ATGP TEATRO PIRATA
 
La candida innocenza che si scontra contro una realtà troppo dura a cui dover far fronte. 
Una realtà non a misura di bambini, i protagonisti di quest’opera, che volenti o nolenti si sono trovati a doverla fronteggiare. La storia racconta infatti di due ragazzini, costretti a vivere in un luogo dove vige l’ingiustizia e la violenza : una città dall’apparenza bella, ma con le fondamenta marce e sudice, perché abitata da esseri umani che spesso sembrano non poter essere definite tali.

Lo spettacolo nasce dalla trasposizione del romanzo di Francesco Niccolini “Manù e Michè” il segreto del principe, un’opera che riprende le vicende di Carlo Gesualdo principe di Venosa, importante musicista del ‘500 che si macchiò di un terribile delitto d’onore. 
Da questo racconto prende vita lo spettacolo.
Le vite dei due bambini protagonisti sono intrecciate, sono opposte e parallele tra loro ma anche in perfetta antitesi dove vige comunque una sorta di strana sintonia in cui sentono di potersi dare forza l’uno con l’altro. Una vita appartiene al figlio di un principe ricco e potente, l’altra a un umile servo. Uno viziato e l’altro obbediente, abituati a fare sempre tutto insieme, quasi come fratelli. Il loro rapporto sta in bilico su un filo contraddittorio, dove però rimane presente la fiducia che hanno l’uno verso l’altro.
In mezzo al loro rapporto vi è la figura di Don Carlo, preponderante, maestosa, che detiene il potere di avere l’ultima parola. Un padre che vive in uno spazio a sé, in cui apparentemente sono presenti solo musica e stelle. Ma se si scava, vengono fuori, alla luce, verità e segreti, che influenzeranno tutti i personaggi. L’apparente invisibile in questa storia cela infatti molto altro che piano piano verrà fuori .
“Il principe che sarà “ è uno spettacolo consigliato dai 12 anni in su, ma adatto anche ad un pubblico di adulti, che senza fatica verranno rapiti dalla storia e dai misteri attorno ad essa. 
Uno dei punti forti di questa creazione è senza dubbio, la scenografia : un grande praticabile in legno che metaforicamente rappresenta anche i vari piani e le varie aree dove stanno i personaggi, a seconda del loro ordine gerarchico. Don Carlo sta sempre nella cabina in alto, con sguardo perso all’orizzonte, come fosse in un osservatorio. Suo figlio si muove al piano più basso e l’amico, servo, quasi non ci sale neanche sulla struttura, come se non ne fosse degno.
Questa storia è una scoperta di cose preziose. Di musica, di amore, di stelle. 
Ma anche di paura. Di coraggio. Di esser consci che bisogna esser pronti ad affrontare quello che verrà.
E fuggire non è permesso.E in tutto ciò si muove benissimo l’interprete Simone Guerro mosso dalla " discreta" regia di Tonio De Nitto  che su e giù dalla scenografia riesce a farci benissimo immergere nella complessità della storia interpretando tutti i personaggi in modo convincente e naturale
 
ELEONORA BLANDINI 


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