
COLPI DI SCENA 2024 VISTO DAGLI ALTRI (2)
ORA CI PIACE METTERE ALCUNE BELLE RIFLESSIONI DEL GIOVANE ROMEO PIZZOL USCITE SU ''GAGARIN''
Nel mese di giugno a Forlì si è tenuto Colpi di Scena, evento biennale di teatro per ragazzi e giovani, a cura di Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione. Sono stati portati in scena, in quattro giorni, ben sedici spettacoli, di cui sette prime nazionali, di compagnie provenienti da tutta Italia e dall’estero.
In tutta questa abbondanza di storie, stili, idee e punti di vista è stato possibile confrontarsi ancora una volta con il mondo del teatro ragazzi e trovare, in una diversità di linguaggi, antichi tratti ricorrenti e moderni spunti di innovazione.
Ad esempio, parlando di ciò che ricorre: tra i titoli sui cartelloni del teatro ragazzi compaiono quasi sempre una o più fiabe classiche. A Colpi di Scena ne ho incontrate tre, riprese più o meno fedelmente, reinterpretate mediante determinati linguaggi o anche solo accennate: Barbablù, Cappuccetto Rosso e Hansel e Gretel.
La fiaba è l’alfabeto dell’umanità, un sillabario di elementi che non sono altro che le componenti prime dell’uomo: istinti (la fame in Hansel e Gretel), emozioni (la paura del bosco e del lupo in Cappuccetto Rosso), legami familiari e poi sociali (il rapporto con i genitori di Hansel e Gretel, il matrimonio d’interesse di Giovanna con Barbablù).
Non stupisce dunque che sia ancora al centro del discorso educativo e artistico per le nuove generazioni. Ma come viene portata sul palco?
Innanzitutto, la fiaba è un racconto, viene dalla tradizione orale, e la si può semplicemente ri-raccontare.
È la modalità che contraddistingue artisti-narratori come Marco Cantori del Teatro Perdavvero e Danilo Conti di TCP Tanti Cosi Progetti. Entrambi navigati affabulatori, salgono sul palco e riempiono l’aria di parole, narrando, pagina dopo pagina, la storia.
I loro spettacoli Il segreto di Barbablù (Teatro Perdavvero) e Granny e Lupo (TCP) però, pur con modalità simili, prendono direzioni diverse nel rapporto con la fiaba.
Marco Cantori aderisce perfettamente al racconto di Charles Perrault e lo porta in scena semplicemente arricchendolo di canzoni vivaci e colorandolo con la scenografia vistosa di Denis Riva e con alcuni inserti di teatro d’ombra.
Accanto alla narrazione compaiono elementi scenici simbolici, la presenza di due sagome di cavalli, le due grandi mani ai lati della scena, il viraggio di colore dal blu iniziale al giallo. Tuttavia il grosso dello spettacolo è portato sulle (larghe) spalle di Marco Cantori, perfettamente a suo agio, in grado di divertirsi divertendo, e che si rivolge direttamente al pubblico bambino come a un pubblico di pari.
Danilo Conti, dal canto suo, ha una grandissima esperienza di narratore e ne fa buon uso. Cattura il pubblico già dalle prime parole e inizia anche lui a raccontare, come seguendo le pagine di un libro. Tuttavia nel suo caso il rapporto con la fiaba è diverso.
In una delle due storie, infatti, quella che dà il titolo allo spettacolo, non viene narrata la storia di Cappuccetto Rosso, ma se ne ipotizza un proseguo. Il teatro viene utilizzato come strumento di indagine, che permette di spingere l’immaginazione a cercare nuovi significati e nuove conoscenze. L’ipotesi è questa: la nonna di cappuccetto rosso, Granny, dopo essere stata divorata, è diventata un fantasma e continua ad infestare la sua casa aspettando l’arrivo di un altro lupo in grado di liberarla e darle la pace.
In questa cornice, molto postmoderna e un po’ inquietante, Danilo Conti si muove con i suoi strumenti: la voce, le ombre, e soprattutto i pupazzi, di cui particolarmente impressionante risulta quello del lupo, alto, grande, spaventoso e molto credibile.
Tuttavia, anche senza pupazzi, l’attore è sempre efficace. Nella prima storia infatti interpreta i due personaggi di un lupo e di un capretto con il semplice espediente di una scatola di cartone che, girata da un lato mostra la faccia del lupo, dall’altro quella del capretto.
Granny e Lupo e Il segreto di Barbablù sono spettacoli con modalità simili e spunti diversi. Ma il teatro di narrazione non è l’unica forma per raccontare una fiaba.
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Il teatro di Clara Storti è diverso. È puro movimento, tra danza e circo, ed è capace di creare spazi visivi e sonori dosando con cura volumi, parole, lingue e gesti.
Il suo spettacolo si chiama Gretel, della compagnia Quattrox4.
Come dice la sinossi stessa, la fiaba dei Grimm è la suggestione di partenza, da cui l’autrice e attrice si è focalizzata sui temi del perdersi, sui percorsi rischiosi e sul tentativo eroico di superare il dramma.La storia che racconta, quindi, non è quella della fiaba di Hansel e Gretel. Il percorso fatto di briciole di pane c’è, come anche l’incontro con una strana e magica casetta. Ma ci si discosta dalla struttura della fiaba originale per andare ad astrarre e indagarne alcuni degli elementi, lasciando a chi guarda il compito di interpretare quello che vede.
La scena è composta di piccoli oggetti, in bilico su articolati supporti in legno. Tra di loro si muove, nella sua quotidianità, Gretel, che convive con due strani animali, un cavallino e un piumino, di nome Fritz e Oscar.
Tutto è instabile, tutto è annodato, anche la stessa Gretel che è un nido di movimenti ingarbugliati e, per compiere un’azione, prende sempre il percorso più tortuoso. Una radio a volume basso crea un piacevole e appena percettibile rumore di fondo.
Questa delicatissima quotidianità viene sconvolta quando tutto crolla. Dopo il buio e lo spavento Gretel raccoglie le cose, una ad una, separando gli oggetti dai supporti in legno. Mentre questi ultimi finiscono su un carretto, gli altri vengono incastrati uno sull’altro sopra ad uno sgabello rovesciato. Quando tutto è impacchettato, Gretel si mette in testa lo sgabello e parte.In poco tempo incontra una casetta sospesa in aria tra le nuvole. L’unico modo per raggiungerla è arrampicarsi lungo una corda, fino alla sommità dello spazio scenico. Gretel non sa come si fa. Prova prima con una mano, poi con l’altra, poi con i piedi. Sale, scivola, rotola, si ingarbuglia. Infine riesce a salire, abbandonando ogni cosa e portando con sé solo i due amici animali Fritz e Oscar.Anche la casa nel cielo però crolla. Gretel si schianta a terra. Tutto sembra finito ma si accende una luce da fondo sala e Gretel incuriosita, ancora una volta, parte e si avventura.
È evidente di come l’approccio sia differente dai primi due spettacoli citati, sia nel linguaggio artistico che nel rapporto con la fiaba. Se essa è riportata fedelmente ne Il segreto di Barbablù ed è spunto per l’immaginazione in Granny e Lupo, per Clara Storti è miniera di simboli e significati.
In ogni caso la fiaba resta una risorsa. Un luogo di libertà e di ricerca. Sicuramente continuerà a fare la sua comparsa tra una pagina e l’altra nei nostri teatri, nelle nostre storie e nei nostri discorsi.
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Ecco poi Hansel e Gretel che ho potuto ritrovare in altri due spettacoli.
Uno di questi è Hansel e Gretel, fratelli unici di La Baracca – Testoni Ragazzi, dove viene messa in scena direttamente la storia dei fratelli Grimm.
L’altro è Down, spettacolo di teatro danza del Collettivo Clochard, dove la storia dello spettacolo non coincide con la fiaba dei Grimm, anzi, appartiene alla realtà più che al fiabesco. Ma compaiono comunque alcuni riferimenti alla fiaba.
Hansel e Gretel, fratelli unici è stato sviluppato all’interno del progetto Arte e Salute Ragazzi, un laboratorio tramite il quale si è creata una compagnia teatrale con persone che soffrono di disturbi psichiatrici.
Proprio perché all’interno di una cornice di ricerca laboratoriale, che interroga in primo luogo le coscienze dei partecipanti, lo spettacolo nasce dall’esigenza di cercare elementi della fiaba attraverso i quali sia possibile rileggere la storia personale di chi lo mette in scena.
La narrazione è lineare e fedele alla storia originale, con le sue svolte e i suoi personaggi. Ma tra i vari temi di Hansel e Gretel viene selezionato e messo al centro quello della fratellanza e dell’appartenenza familiare.
Tenendo ben presente questo tema gli attori si confrontano con esso, uscendo in alcuni momenti dai loro personaggi e raccontando esperienze personali sul tema della fratellanza o, è il caso dell’attore che interpreta il padre dei ragazzi, interrompendo l’azione drammatica per fare commenti sul personaggio che sta interpretando, criticandone le decisioni.
Inoltre il personaggio di Hansel viene triplicato e diventa un piccolo coro, nel quale ogni attore interpreta una veste di Hansel, un aspetto della sua personalità, nel quale riesce a inserire una parte della propria esperienza. Al centro di questo Hansel-coro c’è Gretel, vera protagonista del racconto. È lei quella a cui tocca il compito di ricucire i rapporti familiari e salvare la sua vita e quella del fratello.
Anche Down ricerca e seleziona all’interno della fiaba determinati temi, in particolare il rapporto figli-genitori e il sentirsi abbandonati. Tuttavia lo fa raccontando un’altra storia, in cui inserisce simboli che richiamino il personaggio di Gretel e i significati ad esso associati.
Nello spettacolo viene raccontata la vita di una bambina con sindrome di Down: si parte dal concepimento, poi la nascita, il rapporto con la madre, le prime esperienze di bullismo e discriminazione da parte di coetanei. Di fronte a queste esperienze negative la bambina perde fiducia nella madre, che, rimasta sola, non sa come gestire la situazione e salvare il rapporto. Il dramma è vissuto da entrambe, madre e figlia, ambedue vittime di un padre assente che ad un certo punto ritorna, scatenando un furioso confronto.
Quello del Collettivo Clochard è uno spettacolo fatto di simboli.
La madre della bambina indossa una casetta, come una maschera, che gli copre la testa. Il padre è vestito da apicoltore. La bambina gioca con una casetta tutta nera, con la scritta Gretel. Dentro c’è una bambola, Gretel appunto, che è specchio della bambina stessa e le permette di farsi a sua volta mamma.
Anche le parole, in alcuni momenti, sono usate come simboli. All’inizio, pronunciati sporadicamente, isolati, ritornano alcuni termini: amore, casa, sole, io, mamma. C’è un gioco di ritorni, in cui queste parole passano dalla bocca della mamma a quella della figlia, che le usa nel suo rapporto con la bambola.
Lo spettacolo alterna momenti di parola a momenti di danza. L’attrice Giorgia Benassi, che interpreta la bambina e che, nella realtà, ha veramente la sindrome di Down, dà vita senza problemi ad entrambi con naturalezza e forza.
La sua presenza si distingue, nel complesso dello spettacolo, per essere l’elemento più denotativo e meno iconico, più reale e meno simbolico, e permette di raccontare con molta efficacia un problema e una situazione reali, andando dritto al cuore della questione e portandola sul palco.
Hansel e Gretel, fratelli unici è una fiaba. Down una storia di realtà.
La prima è più semplice, diretta nei suoi messaggi, la seconda segue le sfumature della vita e spesso è difficile prendere una posizione. Tuttavia entrambe vogliono veicolare un messaggio di speranza, di una crescita possibile, che permetta di uscire dalle cornici o dalle casette in cui ci si trova intrappolati e di aderire alle pieghe dell’anima umana, che non ha una forma precisa e ben definita, ma che bisogna imparare a conoscere e rispettare.
Entrambe fanno riferimento alla stessa fiaba, scavando per trovare in essa i significati che possono risultare più funzionali alla narrazione e la inseriscono in un discorso educativo e comunicativo moderno. Down con un’attenzione all’attualità e alla società, il progetto di Arte e Salute Ragazzi con la consapevolezza dell’utilità della finzione nel processo di conquista di sé.
Tanti spettacoli per ragazzi nascono dai libri. Non solo dalle fiabe, ma anche da romanzi best-seller e testi poetici, più o meno moderni.
Durante la rassegna Colpi di Scena, organizzata da Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione ho assistito a tre spettacoli che dialogano con un testo letterario, ciascuno con un approccio diverso.
Se consideriamo uno spettacolo come un organismo e il suo testo come un codice genetico, in esso possono comparire, più o meno evidenti, le tracce del DNA genitoriale, ossia dello spunto o del soggetto che ne ha posto le basi.
Nel caso di spettacoli tratti da libri spesso si persegue la via della massima fedeltà al testo letterario, ed ecco allora che lo spettacolo ha intere “sequenze di DNA” che coincidono parola per parola al romanzo/racconto di partenza. È il caso di molti adattamenti recenti, come Blankets (di cui ho parlato qui) e anche del lavoro di Teatro Gioco Vita, La ragazza dei lupi. La ragazza dei lupi è un romanzo di Katherine Rundell, vincitore del Premio Andersen nel 2017. La storia tratta di una ragazzina, Feo, cresciuta in una famiglia di Liberalupi, cioè individui che liberano i lupi, li proteggono e dialogano con loro. Quando sua mamma viene incarcerata, Feo scappa, aiutata da tre lupi. A loro si aggiunge il giovane Ilya, un soldato che desidera fare il danzatore e che diserta per partire con Feo.
Tutto il racconto è un inno alla libertà, contro ogni forma di dittatura, tanto che nel finale Feo riesce a scatenare una vera e propria rivoluzione e ad avere la meglio sui militari.
È diverso l’approccio di Illoco Teatro, che con Asola & Bottone. Storia di un sarto e della sua anima, traspone il racconto L’anima smarrita di Olga Nawoja Tokarczuk, scrittrice polacca, di recente insignita del premio Nobel per la letteratura.
Roberto Andolfi, il regista, prende il testo letterario e lo porta in scena, ma toglie quasi tutte le parole. Poco del testo effettivo viene mantenuto e le poche frasi dello spettacolo vengono relegate ad alcuni momenti introduttivi e conclusivi tramite un voice over. Tutto il resto è spazio, luce e azione.
Il testo non entra più direttamente nel DNA dello spettacolo, dando forma e parole al testo teatrale. Lo spettacolo non è clone del libro, ma figlio, con l’impronta del genitore ma un carattere unico e particolare.
La storia è quella di un sarto anziano, sempre al lavoro nella sua bottega. Ad aiutarlo c’è la sua anima, la stessa che narra il racconto, ma che non può entrare in contatto con lui direttamente. Una notte la vita del sarto viene ripercorsa tutta: dalle prime aspirazioni, al fallimento, fino alla proposta di un inquietante investitore con cui il sarto firma un contratto di esclusiva. Questo gesto lo porta ad una separazione dalla propria anima. Ma nel finale il sarto, ormai vecchio, strappa il contratto e ritorna alla libertà creativa della giovinezza, riunendosi con la sua anima.
Sarto e anima sono interpretati da Dario Carbone e Annarita Colucci, perfettamente padroni di gesti, posizioni, intenzioni, in un set scenografico per nulla facile da gestire. A farla da padrona sul palco, infatti, è la complessa scenografia di Federico Biancalani.
Una struttura tridimensionale cubica contiene l’intero ambiente in cui si muove il sarto. All’interno, illuminati da luci calde, ci sono manichini, abiti, altri oggetti e tende che delimitano stanze e ambienti differenti. All’esterno, sotto una luce bianca, che sfuma nell’oscurità, è relegata l’anima. Lei si muove freneticamente tutto attorno alla struttura, osservando il padrone, seguendolo, agganciando e sganciando corde per far scendere o salire, con un sistema precisissimo di contrappesi, gli oggetti usati dal sarto.
Un lavoro sulla leggerezza e pesantezza e sul fuori e dentro, che, senza parlare, racconta tutto della storia da cui prende vita.
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Il terzo spettacolo è Stravaganze in sol minore del Centro Coreografico Nazionale Aterballetto, che parte dai testi de La mela di Amleto di Toti Scialoja, pittore e poeta italiano. Questa è una raccolta di brevi nonsense verbali in poesia.
Scialoja gioca con le parole, girandoci attorno con rime, ripetizioni, allitterazioni, recuperandole nel loro suono prima che nel loro senso, intrecciando i significanti senza pensare al significato.Un esempio: "Calma la talpa al chiaro di luna palpa le sue patate ad una ad una"
Lo spettacolo di Aterballetto vuole proseguire l’indagine sul puro suono delle parole, utilizzandole come spunto scenico e coreografico, affiancate o meno da musiche di vario genere.
Questo scopo viene attuato con la ripetizione insistita, spesso seguendo una melodia cantilenata, delle poesie di Scialoja. Ognuna inserita in un contesto diverso e associata a movimenti e oggetti di scena differenti.
Ad esempio Calma la talpa è declamata dall’attore (e baritono) Piersilvio De Santis, che si rivolge al pubblico e lo coinvolge nel gioco di ripetizione, mentre Vittoria Franchina esegue movimenti di danza indossando una maschera kabuki.
Altre due poesie," Pipistrello ti par bello e Topo topo senza scopo", vengono recitate e ripetute dai due interpreti mentre lottano furiosamente tra loro.
La mela di Amleto viene pronunciata in un fitto fumo, durante un combattimento con spade di legno.
La poesia della lumaca e la luna è recitata una sola volta, dopodiché i due interpreti si lanciano in un ballo di coppia sulle note di Dean Martin.
A volte sembra di trovare delle regole nel movimento, nella melodia, nell’uso di maschere e oggetti, ma subito quest’impressione sfugge.
Lo spettacolo è stra-vagante proprio perché vaga straripando tra espressioni visive, rimbalzando tra i suoni delle parole, senza dettare un terreno comune solido per lo spettatore, determinando un’esperienza a metà tra lo smarrimento, il divertimento (nello svelarsi di volta in volta di nuove stravaganze) e l’attesa.
I tre spettacoli citati partono tutti da testi letterari. I testi sono piuttosto diversi, soprattutto per quanto riguarda Scialoja, ma quello che distingue i lavori presentati è soprattutto l’intento con cui viene affrontata la materia di partenza.Nel caso de La ragazza dei lupi si tratta di una semplice traduzione del testo in forma scenica. Il romanzo è drammatizzato e sintetizzato per il palco, dove viene narrato, quasi come fosse una lettura, dalla compagnia Teatro Gioco Vita, con le sue modalità e tecniche, efficaci e ben consolidate.
Per Asola & Bottone parlerei più di trasposizione che di traduzione. Dal linguaggio verbale letterario si cerca un linguaggio “teatrale” che sfrutta le prerogative uniche della macchina scenica, per veicolare un secondo livello di significati, che anche nel testo originale possono essere presenti senza essere esplicitati.
Nel caso, infine, di Stravaganze in sol minore l’intento sembra quello della ricerca artistica, che prosegua la scrittura del testo di partenza, andando avanti là dove l’autore aveva messo la parola fine.
Tornando alla metafora iniziale, con il primo spettacolo si ha la conservazione del patrimonio genetico di partenza, con il secondo un’evoluzione controllata e regolata dai meccanismi interpretativi del regista, con il terzo si introducono elementi alieni, per scatenare una rapida trasformazione del materiale in qualcosa di completamente nuovo.
Questi tre percorsi si affiancano a molti altri possibili, che hanno il grande pregio di aprire le porte che spesso separano il mezzo teatrale da quello letterario e favoriscono lo scambio tra i generi, arricchendo la variabilità genetica del nostro patrimonio culturale, che, non dimentichiamolo, vive ed evolve nel tempo.
ROMEO PIZZOL
ORA CI PIACE METTERE ALCUNE BELLE RIFLESSIONI DEL GIOVANE ROMEO PIZZOL USCITE SU ''GAGARIN''

Nel mese di giugno a Forlì si è tenuto Colpi di Scena, evento biennale di teatro per ragazzi e giovani, a cura di Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione. Sono stati portati in scena, in quattro giorni, ben sedici spettacoli, di cui sette prime nazionali, di compagnie provenienti da tutta Italia e dall’estero.
In tutta questa abbondanza di storie, stili, idee e punti di vista è stato possibile confrontarsi ancora una volta con il mondo del teatro ragazzi e trovare, in una diversità di linguaggi, antichi tratti ricorrenti e moderni spunti di innovazione.
Ad esempio, parlando di ciò che ricorre: tra i titoli sui cartelloni del teatro ragazzi compaiono quasi sempre una o più fiabe classiche. A Colpi di Scena ne ho incontrate tre, riprese più o meno fedelmente, reinterpretate mediante determinati linguaggi o anche solo accennate: Barbablù, Cappuccetto Rosso e Hansel e Gretel.
La fiaba è l’alfabeto dell’umanità, un sillabario di elementi che non sono altro che le componenti prime dell’uomo: istinti (la fame in Hansel e Gretel), emozioni (la paura del bosco e del lupo in Cappuccetto Rosso), legami familiari e poi sociali (il rapporto con i genitori di Hansel e Gretel, il matrimonio d’interesse di Giovanna con Barbablù).
Non stupisce dunque che sia ancora al centro del discorso educativo e artistico per le nuove generazioni. Ma come viene portata sul palco?
Innanzitutto, la fiaba è un racconto, viene dalla tradizione orale, e la si può semplicemente ri-raccontare.
È la modalità che contraddistingue artisti-narratori come Marco Cantori del Teatro Perdavvero e Danilo Conti di TCP Tanti Cosi Progetti. Entrambi navigati affabulatori, salgono sul palco e riempiono l’aria di parole, narrando, pagina dopo pagina, la storia.
I loro spettacoli Il segreto di Barbablù (Teatro Perdavvero) e Granny e Lupo (TCP) però, pur con modalità simili, prendono direzioni diverse nel rapporto con la fiaba.
Marco Cantori aderisce perfettamente al racconto di Charles Perrault e lo porta in scena semplicemente arricchendolo di canzoni vivaci e colorandolo con la scenografia vistosa di Denis Riva e con alcuni inserti di teatro d’ombra.
Accanto alla narrazione compaiono elementi scenici simbolici, la presenza di due sagome di cavalli, le due grandi mani ai lati della scena, il viraggio di colore dal blu iniziale al giallo. Tuttavia il grosso dello spettacolo è portato sulle (larghe) spalle di Marco Cantori, perfettamente a suo agio, in grado di divertirsi divertendo, e che si rivolge direttamente al pubblico bambino come a un pubblico di pari.
Danilo Conti, dal canto suo, ha una grandissima esperienza di narratore e ne fa buon uso. Cattura il pubblico già dalle prime parole e inizia anche lui a raccontare, come seguendo le pagine di un libro. Tuttavia nel suo caso il rapporto con la fiaba è diverso.
In una delle due storie, infatti, quella che dà il titolo allo spettacolo, non viene narrata la storia di Cappuccetto Rosso, ma se ne ipotizza un proseguo. Il teatro viene utilizzato come strumento di indagine, che permette di spingere l’immaginazione a cercare nuovi significati e nuove conoscenze. L’ipotesi è questa: la nonna di cappuccetto rosso, Granny, dopo essere stata divorata, è diventata un fantasma e continua ad infestare la sua casa aspettando l’arrivo di un altro lupo in grado di liberarla e darle la pace.
In questa cornice, molto postmoderna e un po’ inquietante, Danilo Conti si muove con i suoi strumenti: la voce, le ombre, e soprattutto i pupazzi, di cui particolarmente impressionante risulta quello del lupo, alto, grande, spaventoso e molto credibile.
Tuttavia, anche senza pupazzi, l’attore è sempre efficace. Nella prima storia infatti interpreta i due personaggi di un lupo e di un capretto con il semplice espediente di una scatola di cartone che, girata da un lato mostra la faccia del lupo, dall’altro quella del capretto.
Granny e Lupo e Il segreto di Barbablù sono spettacoli con modalità simili e spunti diversi. Ma il teatro di narrazione non è l’unica forma per raccontare una fiaba.
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Il teatro di Clara Storti è diverso. È puro movimento, tra danza e circo, ed è capace di creare spazi visivi e sonori dosando con cura volumi, parole, lingue e gesti.
Il suo spettacolo si chiama Gretel, della compagnia Quattrox4.
Come dice la sinossi stessa, la fiaba dei Grimm è la suggestione di partenza, da cui l’autrice e attrice si è focalizzata sui temi del perdersi, sui percorsi rischiosi e sul tentativo eroico di superare il dramma.La storia che racconta, quindi, non è quella della fiaba di Hansel e Gretel. Il percorso fatto di briciole di pane c’è, come anche l’incontro con una strana e magica casetta. Ma ci si discosta dalla struttura della fiaba originale per andare ad astrarre e indagarne alcuni degli elementi, lasciando a chi guarda il compito di interpretare quello che vede.
La scena è composta di piccoli oggetti, in bilico su articolati supporti in legno. Tra di loro si muove, nella sua quotidianità, Gretel, che convive con due strani animali, un cavallino e un piumino, di nome Fritz e Oscar.
Tutto è instabile, tutto è annodato, anche la stessa Gretel che è un nido di movimenti ingarbugliati e, per compiere un’azione, prende sempre il percorso più tortuoso. Una radio a volume basso crea un piacevole e appena percettibile rumore di fondo.
Questa delicatissima quotidianità viene sconvolta quando tutto crolla. Dopo il buio e lo spavento Gretel raccoglie le cose, una ad una, separando gli oggetti dai supporti in legno. Mentre questi ultimi finiscono su un carretto, gli altri vengono incastrati uno sull’altro sopra ad uno sgabello rovesciato. Quando tutto è impacchettato, Gretel si mette in testa lo sgabello e parte.In poco tempo incontra una casetta sospesa in aria tra le nuvole. L’unico modo per raggiungerla è arrampicarsi lungo una corda, fino alla sommità dello spazio scenico. Gretel non sa come si fa. Prova prima con una mano, poi con l’altra, poi con i piedi. Sale, scivola, rotola, si ingarbuglia. Infine riesce a salire, abbandonando ogni cosa e portando con sé solo i due amici animali Fritz e Oscar.Anche la casa nel cielo però crolla. Gretel si schianta a terra. Tutto sembra finito ma si accende una luce da fondo sala e Gretel incuriosita, ancora una volta, parte e si avventura.
È evidente di come l’approccio sia differente dai primi due spettacoli citati, sia nel linguaggio artistico che nel rapporto con la fiaba. Se essa è riportata fedelmente ne Il segreto di Barbablù ed è spunto per l’immaginazione in Granny e Lupo, per Clara Storti è miniera di simboli e significati.
In ogni caso la fiaba resta una risorsa. Un luogo di libertà e di ricerca. Sicuramente continuerà a fare la sua comparsa tra una pagina e l’altra nei nostri teatri, nelle nostre storie e nei nostri discorsi.
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Ecco poi Hansel e Gretel che ho potuto ritrovare in altri due spettacoli.
Uno di questi è Hansel e Gretel, fratelli unici di La Baracca – Testoni Ragazzi, dove viene messa in scena direttamente la storia dei fratelli Grimm.
L’altro è Down, spettacolo di teatro danza del Collettivo Clochard, dove la storia dello spettacolo non coincide con la fiaba dei Grimm, anzi, appartiene alla realtà più che al fiabesco. Ma compaiono comunque alcuni riferimenti alla fiaba.
Hansel e Gretel, fratelli unici è stato sviluppato all’interno del progetto Arte e Salute Ragazzi, un laboratorio tramite il quale si è creata una compagnia teatrale con persone che soffrono di disturbi psichiatrici.
Proprio perché all’interno di una cornice di ricerca laboratoriale, che interroga in primo luogo le coscienze dei partecipanti, lo spettacolo nasce dall’esigenza di cercare elementi della fiaba attraverso i quali sia possibile rileggere la storia personale di chi lo mette in scena.
La narrazione è lineare e fedele alla storia originale, con le sue svolte e i suoi personaggi. Ma tra i vari temi di Hansel e Gretel viene selezionato e messo al centro quello della fratellanza e dell’appartenenza familiare.
Tenendo ben presente questo tema gli attori si confrontano con esso, uscendo in alcuni momenti dai loro personaggi e raccontando esperienze personali sul tema della fratellanza o, è il caso dell’attore che interpreta il padre dei ragazzi, interrompendo l’azione drammatica per fare commenti sul personaggio che sta interpretando, criticandone le decisioni.
Inoltre il personaggio di Hansel viene triplicato e diventa un piccolo coro, nel quale ogni attore interpreta una veste di Hansel, un aspetto della sua personalità, nel quale riesce a inserire una parte della propria esperienza. Al centro di questo Hansel-coro c’è Gretel, vera protagonista del racconto. È lei quella a cui tocca il compito di ricucire i rapporti familiari e salvare la sua vita e quella del fratello.
Anche Down ricerca e seleziona all’interno della fiaba determinati temi, in particolare il rapporto figli-genitori e il sentirsi abbandonati. Tuttavia lo fa raccontando un’altra storia, in cui inserisce simboli che richiamino il personaggio di Gretel e i significati ad esso associati.
Nello spettacolo viene raccontata la vita di una bambina con sindrome di Down: si parte dal concepimento, poi la nascita, il rapporto con la madre, le prime esperienze di bullismo e discriminazione da parte di coetanei. Di fronte a queste esperienze negative la bambina perde fiducia nella madre, che, rimasta sola, non sa come gestire la situazione e salvare il rapporto. Il dramma è vissuto da entrambe, madre e figlia, ambedue vittime di un padre assente che ad un certo punto ritorna, scatenando un furioso confronto.
Quello del Collettivo Clochard è uno spettacolo fatto di simboli.
La madre della bambina indossa una casetta, come una maschera, che gli copre la testa. Il padre è vestito da apicoltore. La bambina gioca con una casetta tutta nera, con la scritta Gretel. Dentro c’è una bambola, Gretel appunto, che è specchio della bambina stessa e le permette di farsi a sua volta mamma.
Anche le parole, in alcuni momenti, sono usate come simboli. All’inizio, pronunciati sporadicamente, isolati, ritornano alcuni termini: amore, casa, sole, io, mamma. C’è un gioco di ritorni, in cui queste parole passano dalla bocca della mamma a quella della figlia, che le usa nel suo rapporto con la bambola.
Lo spettacolo alterna momenti di parola a momenti di danza. L’attrice Giorgia Benassi, che interpreta la bambina e che, nella realtà, ha veramente la sindrome di Down, dà vita senza problemi ad entrambi con naturalezza e forza.
La sua presenza si distingue, nel complesso dello spettacolo, per essere l’elemento più denotativo e meno iconico, più reale e meno simbolico, e permette di raccontare con molta efficacia un problema e una situazione reali, andando dritto al cuore della questione e portandola sul palco.
Hansel e Gretel, fratelli unici è una fiaba. Down una storia di realtà.
La prima è più semplice, diretta nei suoi messaggi, la seconda segue le sfumature della vita e spesso è difficile prendere una posizione. Tuttavia entrambe vogliono veicolare un messaggio di speranza, di una crescita possibile, che permetta di uscire dalle cornici o dalle casette in cui ci si trova intrappolati e di aderire alle pieghe dell’anima umana, che non ha una forma precisa e ben definita, ma che bisogna imparare a conoscere e rispettare.
Entrambe fanno riferimento alla stessa fiaba, scavando per trovare in essa i significati che possono risultare più funzionali alla narrazione e la inseriscono in un discorso educativo e comunicativo moderno. Down con un’attenzione all’attualità e alla società, il progetto di Arte e Salute Ragazzi con la consapevolezza dell’utilità della finzione nel processo di conquista di sé.

Tanti spettacoli per ragazzi nascono dai libri. Non solo dalle fiabe, ma anche da romanzi best-seller e testi poetici, più o meno moderni.
Durante la rassegna Colpi di Scena, organizzata da Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione ho assistito a tre spettacoli che dialogano con un testo letterario, ciascuno con un approccio diverso.
Se consideriamo uno spettacolo come un organismo e il suo testo come un codice genetico, in esso possono comparire, più o meno evidenti, le tracce del DNA genitoriale, ossia dello spunto o del soggetto che ne ha posto le basi.
Nel caso di spettacoli tratti da libri spesso si persegue la via della massima fedeltà al testo letterario, ed ecco allora che lo spettacolo ha intere “sequenze di DNA” che coincidono parola per parola al romanzo/racconto di partenza. È il caso di molti adattamenti recenti, come Blankets (di cui ho parlato qui) e anche del lavoro di Teatro Gioco Vita, La ragazza dei lupi. La ragazza dei lupi è un romanzo di Katherine Rundell, vincitore del Premio Andersen nel 2017. La storia tratta di una ragazzina, Feo, cresciuta in una famiglia di Liberalupi, cioè individui che liberano i lupi, li proteggono e dialogano con loro. Quando sua mamma viene incarcerata, Feo scappa, aiutata da tre lupi. A loro si aggiunge il giovane Ilya, un soldato che desidera fare il danzatore e che diserta per partire con Feo.
Tutto il racconto è un inno alla libertà, contro ogni forma di dittatura, tanto che nel finale Feo riesce a scatenare una vera e propria rivoluzione e ad avere la meglio sui militari.
Lo spettacolo di Teatro Gioco Vita mette in piedi una complessa macchina scenografica, che da principio richiama subito la vita nei boschi, con un’alta struttura di osservazione in legno, ricchissima di dettagli capace di incantare lo sguardo. Attorno ad essa si muovono i due attori, Valeria Barreca e Tiziano Ferrari. I due riportano e narrano con grande fedeltà il testo della Rundell. Interpretano con diverse voci i personaggi e gli danno vita tramite il sapiente uso delle ombre che contraddistingue da sempre la compagnia teatrale.
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Roberto Andolfi, il regista, prende il testo letterario e lo porta in scena, ma toglie quasi tutte le parole. Poco del testo effettivo viene mantenuto e le poche frasi dello spettacolo vengono relegate ad alcuni momenti introduttivi e conclusivi tramite un voice over. Tutto il resto è spazio, luce e azione.
Il testo non entra più direttamente nel DNA dello spettacolo, dando forma e parole al testo teatrale. Lo spettacolo non è clone del libro, ma figlio, con l’impronta del genitore ma un carattere unico e particolare.
La storia è quella di un sarto anziano, sempre al lavoro nella sua bottega. Ad aiutarlo c’è la sua anima, la stessa che narra il racconto, ma che non può entrare in contatto con lui direttamente. Una notte la vita del sarto viene ripercorsa tutta: dalle prime aspirazioni, al fallimento, fino alla proposta di un inquietante investitore con cui il sarto firma un contratto di esclusiva. Questo gesto lo porta ad una separazione dalla propria anima. Ma nel finale il sarto, ormai vecchio, strappa il contratto e ritorna alla libertà creativa della giovinezza, riunendosi con la sua anima.
Sarto e anima sono interpretati da Dario Carbone e Annarita Colucci, perfettamente padroni di gesti, posizioni, intenzioni, in un set scenografico per nulla facile da gestire. A farla da padrona sul palco, infatti, è la complessa scenografia di Federico Biancalani.
Una struttura tridimensionale cubica contiene l’intero ambiente in cui si muove il sarto. All’interno, illuminati da luci calde, ci sono manichini, abiti, altri oggetti e tende che delimitano stanze e ambienti differenti. All’esterno, sotto una luce bianca, che sfuma nell’oscurità, è relegata l’anima. Lei si muove freneticamente tutto attorno alla struttura, osservando il padrone, seguendolo, agganciando e sganciando corde per far scendere o salire, con un sistema precisissimo di contrappesi, gli oggetti usati dal sarto.
Un lavoro sulla leggerezza e pesantezza e sul fuori e dentro, che, senza parlare, racconta tutto della storia da cui prende vita.
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Il terzo spettacolo è Stravaganze in sol minore del Centro Coreografico Nazionale Aterballetto, che parte dai testi de La mela di Amleto di Toti Scialoja, pittore e poeta italiano. Questa è una raccolta di brevi nonsense verbali in poesia.
Scialoja gioca con le parole, girandoci attorno con rime, ripetizioni, allitterazioni, recuperandole nel loro suono prima che nel loro senso, intrecciando i significanti senza pensare al significato.Un esempio: "Calma la talpa al chiaro di luna palpa le sue patate ad una ad una"
Lo spettacolo di Aterballetto vuole proseguire l’indagine sul puro suono delle parole, utilizzandole come spunto scenico e coreografico, affiancate o meno da musiche di vario genere.
Questo scopo viene attuato con la ripetizione insistita, spesso seguendo una melodia cantilenata, delle poesie di Scialoja. Ognuna inserita in un contesto diverso e associata a movimenti e oggetti di scena differenti.
Ad esempio Calma la talpa è declamata dall’attore (e baritono) Piersilvio De Santis, che si rivolge al pubblico e lo coinvolge nel gioco di ripetizione, mentre Vittoria Franchina esegue movimenti di danza indossando una maschera kabuki.
Altre due poesie," Pipistrello ti par bello e Topo topo senza scopo", vengono recitate e ripetute dai due interpreti mentre lottano furiosamente tra loro.
La mela di Amleto viene pronunciata in un fitto fumo, durante un combattimento con spade di legno.
La poesia della lumaca e la luna è recitata una sola volta, dopodiché i due interpreti si lanciano in un ballo di coppia sulle note di Dean Martin.
A volte sembra di trovare delle regole nel movimento, nella melodia, nell’uso di maschere e oggetti, ma subito quest’impressione sfugge.
Lo spettacolo è stra-vagante proprio perché vaga straripando tra espressioni visive, rimbalzando tra i suoni delle parole, senza dettare un terreno comune solido per lo spettatore, determinando un’esperienza a metà tra lo smarrimento, il divertimento (nello svelarsi di volta in volta di nuove stravaganze) e l’attesa.
I tre spettacoli citati partono tutti da testi letterari. I testi sono piuttosto diversi, soprattutto per quanto riguarda Scialoja, ma quello che distingue i lavori presentati è soprattutto l’intento con cui viene affrontata la materia di partenza.Nel caso de La ragazza dei lupi si tratta di una semplice traduzione del testo in forma scenica. Il romanzo è drammatizzato e sintetizzato per il palco, dove viene narrato, quasi come fosse una lettura, dalla compagnia Teatro Gioco Vita, con le sue modalità e tecniche, efficaci e ben consolidate.
Per Asola & Bottone parlerei più di trasposizione che di traduzione. Dal linguaggio verbale letterario si cerca un linguaggio “teatrale” che sfrutta le prerogative uniche della macchina scenica, per veicolare un secondo livello di significati, che anche nel testo originale possono essere presenti senza essere esplicitati.
Nel caso, infine, di Stravaganze in sol minore l’intento sembra quello della ricerca artistica, che prosegua la scrittura del testo di partenza, andando avanti là dove l’autore aveva messo la parola fine.
Tornando alla metafora iniziale, con il primo spettacolo si ha la conservazione del patrimonio genetico di partenza, con il secondo un’evoluzione controllata e regolata dai meccanismi interpretativi del regista, con il terzo si introducono elementi alieni, per scatenare una rapida trasformazione del materiale in qualcosa di completamente nuovo.
Questi tre percorsi si affiancano a molti altri possibili, che hanno il grande pregio di aprire le porte che spesso separano il mezzo teatrale da quello letterario e favoriscono lo scambio tra i generi, arricchendo la variabilità genetica del nostro patrimonio culturale, che, non dimentichiamolo, vive ed evolve nel tempo.
ROMEO PIZZOL

